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Ma l’assalto alla democrazia non è finito.

La rielezione di Sergio Mattarella e la sopravvivenza del mandato a Mario Draghi sono solo un analgesico, un rimedio momentaneo: la politica italiana è malata, altri dolori sono in arrivo.

Per la seconda volta, dopo il Papeete, Salvini fallisce la strategia dei “pieni poteri”.

La prima volta fu la cosiddetta spallata al governo Conte, stavolta la posta era più alta: conquistare il Quirinale per espugnare Palazzo Chigi, tutto in un colpo solo.

La strategia dei pieni poteri ha subito due sconfitte, ma un risultato lo ha ottenuto tutto il centrodestra: l’indebolimento della “Repubblica democratica fondata sul lavoro” ha avuto un altro drammatico quanto eclatante episodio.

È lunga la teoria degli episodi antirepubblicani: dagli attacchi allo Stato di diritto di berlusconiana memoria, alle leggi antidemocratiche di Bossi e Fini, fino ai decreti sicurezza di Salvini, passando per il progressivo logoramento dei pilastri dello stato sociale, un passo dietro l’altro, la lunga marcia reazionaria prosegue.

Le patetiche sceneggiate attorno all’elezione del nuovo capo dello Stato sono l’avvilente fotografia della debolezza del nostro assetto democratico.

C’è un Parlamento che non è più espressione della democrazia rappresentativa, né nei numeri né nella qualità degli eletti.

Hanno votato Mattarella più per scongiurare nuove elezioni, – che in conseguenza della legge sul taglio dei parlamentari, avrebbero espulso per sempre un bella fetta di parlamentari – che per fedeltà ai valori repubblicani.

C’è un governo, legittimo, ma nominato nell’emergenza economica e sociale per fronteggiare la pandemia, cioè per accedere ai benefici del Pnrr.

C’è un capo dello Stato rieletto per cause di forza maggiore, poiché la destra pretendeva un “suo” presidente.

Non è un quadro rassicurante. Tutto lascia supporre la preparazione di altri assalti antidemocratici, il cui scopo è sfibrare la tenuta democratica.

La rielezione di Sergio Mattarella e la sopravvivenza del mandato a Mario Draghi sono solo un analgesico, un rimedio momentaneo: la politica italiana è malata, altri dolori sono in arrivo.

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La miseria della democrazia italiana.

“È un Parlamento di piccoli e medi borghesi, che hanno tolto di mezzo la stragrande maggioranza dei cittadini del paese, che interpellano, suggestionano e ingannano solo in caso di elezioni. La classe lavoratrice, le masse popolari, la moltitudine dei salariati precari non trova rappresentanza politica, è diventata una semplice tecnicalità per la distribuzione di bonus, in cambio di consenso.”

Non è facile prevedere nel dettaglio come finirà la partita Quirinale-Palazzo Chigi. Quello che è certo che comunque vada finirà male. La domanda è: com’è possibile aver eletto un Parlamento così molle e incompetente, completamente nelle mani di segretari di partito, che agiscono come capi manipolo? In altri termini: che ne è della libertà di voto?

Le donne e gli uomini che dovrebbero gestire la Repubblica parlamentare, organo sovrano, sono stati reclutati tra i carrieristi di partito, avvocati con la fregola della notorietà, lobbysti fai-da-te, delegati di poteri estranei ai compiti di stato e di governo. Questa è la classe dirigente della democrazia italiana. La parola d’ordine è sempre: preservare e accrescere la propria rendita di posizione.

È un Parlamento di piccoli e medi borghesi, che hanno tolto di mezzo la stragrande maggioranza dei cittadini del paese, che interpellano, suggestionano e ingannano solo in caso di elezioni. La classe lavoratrice, le masse popolari, la moltitudine dei salariati precari non trova rappresentanza politica, è diventata una semplice tecnicalità per la distribuzione di bonus, in cambio di consenso.

La lotta di classe s’è da tempo rovesciata, il lavoro è umiliato e offeso, mentre ai capitalisti non interessano neanche più le regole del mercato, i nostri capitalisti lucrano sull’inefficienza del welfare, prendono sovvenzioni statali e regionali, non pagano le tasse, corrompono, tirano sugli stipendi e sui salari, lesinano i diritti mai sui dividendi.

Come reagisce la moltitudine dei salariati? Loro non vanno più neanche al voto, come dimostrano le risibili percentuali di affluenza alle urne in ogni tornata elettorale da ormai troppi anni a questa parte. È disimpegno politico? Bisognerebbe sgombrare il campo da disquisizioni sociologiche tipiche dei salotti televisivi.

In verità, l’astensione è il costante ripetersi della sentenza di condanna senza appello dei partiti, certifica che la rabbia e il risentimento covano, mentre, pur fra stenti e patimenti, l’opposizione sociale continua a manifestare la propria presenza nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle metropoli.

È una voce flebile, spesso gli uni non sentono gli altri, il discorso politico è intermittente e non sempre chiaro, ma non è stato azzittito. Se, dunque, vi state chiedendo perché la democrazia italiana è così tragicomica, inadeguata, avvilente, la risposta è proprio nei fatti: quando la graduale e implacabile esclusione della maggioranza dei cittadini diventa la cifra della realtà politica, il sistema diventa un fatto privato tra corporazioni e interessi di potere.

Era già successo esattamente un secolo fa. La classe operaia diventò carsica per un ventennio, poi con impeto riprese il suo posto nella storia e fu la spinta propulsiva della democrazia nata dalla Resistenza, la Carta costituzionale, la divisione dei poteri, il Parlamento, i diritti civili e politici.

Che è tutto quello che oggi appare opaco e frustrato, gestito da uomini politici intellettualmente anemici, mossi da ideali rachitici, come la penosa sceneggiata dell’elezione del nuovo capo dello Stato sta a rappresentare, mentre in Italia si muore di Covid, di lavoro, di patriarcato; mentre si ammassano truppe ai confini dell’Ucraina; mentre la tempesta energetica sta provocando inflazione, penuria di materie prime, rincari pesanti, che vanificano gli ingenti prestiti per la ripresa economica post-pandemica.

Il fatto è che il mantra per cui bisogna fare di tutto per la ripresa economica è propizio solo ai fatturati, non certo alla qualità della vita della stragrande maggioranza, che anzi la ripresa la subiscono, proprio come subiscono sempre le crisi

“Il fatto che i poveri rimangono poveri e i ricchi diventino più ricchi è una cosa che, per citare una canzone di Leonard Cohen, tutti sanno e, inoltre ‘that’s how it goes’, ‘è così che vanno le cose’. Ma se tutti lo sanno, allora perché ‘tutti’ non fanno qualcosa per rimediare”, si chiede David Harvey, che continua: “la domanda interessante per me è: ‘Cosa sanno realmente sanno tutti della nostra congiuntura attuale?’.”

Ecco allora che c’è da sapere che la politica italiana non è distante dalla stragrande maggioranza delle donne e degli uomini, è semplicemente contro di loro. È tempo che questa consapevolezza irrompa nel dibattito pubblico e sposti i rapporti di forza, individui una nuova pratica sociale, tracci nuove prospettive politiche di uguaglianza, ridistribuzione, giustizia sociale.

La vediamo in questi giorni la gravità del danno arrecato alla democrazia. Ancora una volta tocca storicamente alla classe lavoratrice, alle masse e alle moltitudini dei salariati precari riprendersi lo spazio politico che gli è stato negato, per farsi carico della democrazia per tutti.

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Quelle elezioni senza elettori.

Per eleggere la sostituzione dell’attuale sindaco, che ha dovuto lasciare l’incarico di parlamentare, sono stati chiamati alle urne 185.394 elettori. Se ne sono presentati solo 21.000, cioè solo l’11,33% degli aventi diritto, vale a dire che l’88,67% non sono andati ai seggi.

Le elezioni suppletive nel I Collegio Uninominale di Roma sono state il termometro dello stato della democrazia rappresentativa italiana. Il primo collegio non è in una zona disagiata della capitale, il suo territorio insiste su una vasta area che va spesso sotto il nome di “centro storico” che si sovrappone in parte alla “città politica”. 

Per eleggere la sostituzione dell’attuale sindaco, che ha dovuto lasciare l’incarico di parlamentare, sono stati chiamati alle urne 185.394 elettori. Se ne sono presentati solo 21.000, cioè solo l’11,33% degli aventi diritto, vale a dire che l’88,67% non sono andati ai seggi. 

Un débâcle ignominiosa per tutti. Che invece sembrano cantare vittoria: l’eletta con appena 12.474 voti si dice onorata, e le fanno la ola sia il deputato uscente, oggi sindaco Roma, che il presidente della Regione Lazio, come se il Pd avesse avuto una strepitosa vittoria. 

La candidata del centrodestra+fascisti conferma di essere una presuntuosa schiappa, una vera e propria perdente: arruolata dal salotto televisivo di Vespa e buttata in politica, è stata capace di fare in poco più di qualche settimana una misera figura sia come candidata vice sindaco, che come deputata: l’hanno votata in appena 4.708. 

E siccome in Italia il tragico e il grottesco sono come i fratelli De Rege, ecco le dichiarazione del presidente di Italia Viva, il cui candidato ha preso niente popò di meno che 2,715 voti. 

Dice l’on. Ettore Rosato: “I primi dati, nonostante la bassa affluenza (sic!) segnalano un risultato straordinario nelle suppletive di Roma. I sondaggi ci davano al 2%, gli elettori, nel primo test politico con il nostro simbolo, oltre il 14%.” 

Dichiarazioni a caldo, direte voi. A parte il calo fisiologico tra la proiezione che li dava al 14% mentre a urne chiuse i voti sono risultati il 12,9%, quello che colpisce di brutto è il  cretinismo, – sia detto senza offesa, ma solo per rimanere in tema di fratelli De Rege.

Infatti, se si fosse confermato il 2% su un totale effettivo di votanti, i nostri eroi avrebbero preso 3.707 voti. Invece, col 12,93% tanto strombazzato, i voti per Italia Viva sono stati 2.715, mille in meno: on. Rosato, ma non era meglio quel temuto 2% e una vera affluenza alle urne? 

Quando la matematica diventa un’opinione estemporanea, non solo i conti non tornano e le percentuali sballano, ma il quoziente di intelligenza politica finisce a numeri irrilevanti.

Far finta che gli elettori non abbiano letteralmente ignorato i partiti politici e i loro candidati, dunque le rispettive politiche, non è solo un trucco retorico, tipico della politica italiana, che ogni volta, a dargli credibilità, succede sempre che hanno vinto tutti.

Questa importante astensione significa che gli elettori vi hanno votato contro.

Stavolta il naufragio ha travolti il ceto politico, l’astensione è stata gigantesca, inesorabile, un iceberg minaccioso: la democrazia italiana è agli sgoccioli, ma loro, che sono parte preponderante del problema, ballano il macabro valzer sul Titanic.

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La “volontà di potenza” della destra italiana.

“Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”, c’è scritto chiaro nel primo comma dell’art. 87 del Titolo II della Costituzione della Repubblica Italiana.

Rivendicare la scelta del prossimo candidato alla più alta carica della Stato tra gli appartenenti al centrodestra è uno sfregio alla Repubblica stessa.

È ignoranza, colpevole e arrogante, sulle prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato, significa molto semplicemente non la ricerca di un vero garante della Carta e della corretta applicazione di regole democratiche condivise, quanto piuttosto di una personalità utile e disponibile all’esercizio della supremazia di una parte del Parlamento sull’altra.

È inaccettabile sotto ogni profilo.

È una versione delirante di “volontà di potenza” che paradossalmente marca l’impotenza politica di chi non sa governare, vuole solo comandare.

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Mission accomplished.

“Il nuovo Capo dello Stato sarà il presidente di una repubblica liberista, lo attendono nuovi e più entusiasmanti traguardi sulla via dell’accumulazione, della deregulation, della rottura del patto sociale che teneva in equilibrio i rapporti di forza tra capitale e lavoro.”

Entro Natale, Draghi porta a termine le 51 riforme previste dal Pnrr che consentono all’Italia di ricevere la seconda rata di 20 miliardi di euro.

L’atlantista ed europeista ha compiuto la missione.A questo punto Draghi può anche ascendere al Colle, trionfando alla prima votazione.

Ormai la politica economica e sociale italiana è incardinata su montanti prestabiliti, nessun governo può modificare la corsa delle ante, che sono spalancate per i capitali, che sono invece chiuse a chiave per la redistribuzione della ricchezza, l’unica prospettiva che avrebbe avuto la possibilità di modificare i livelli alti di disuguaglianza, tra i più alti in Europa.

Tanto più se a controllare che nessun governo forzi quella porta ci va proprio lui, cioè quello che l’ha disegnata, costruita, messa in opera.

Il disegno restauratore della borghesia italiana ha trovato nella pandemia una locomotiva che ha accelerato nei fatti il viaggio della controriforme costituzionali, cosicché non è più compito dello Stato “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” (Art.3).

Compito della Repubblica è diventato, invece, rimuovere gli ostacoli alla ripresa, cioè i diritti della moltitudine degli individui che devono accettare tutto pur di racimolare un reddito che consenta loro una sopravvivenza dignitosa.

Il nuovo Capo dello Stato sarà il presidente di una repubblica liberista, lo attendono nuovi e più entusiasmanti traguardi sulla via dell’accumulazione, della deregulation, della rottura del patto sociale che teneva in equilibrio i rapporti di forza tra capitale e lavoro.

La coalizione di governo che oggi ha fatto da figurazione speciale, potrà pure tentare di interpretare ruoli da protagonista, ma il copione è stato già scritto, il regista già stato scelto. Sarà tragedia o farsa?

Senza più freni inibitori, l’arroganza dei poteri, la rivincita su i più deboli, il bla bla bla demagogico, la criminalizzazione della protesta sociale potranno essere assunti a pieno titolo dal prossimo governo. All’Europa non importa del tasso di democrazia del nostro paese, interessa la solvibilità dei prestiti e la profittabilità degli investimenti a fondo perduto.

Su questo piano, Draghi è un CEO credibile, capace e affidabile. E farà quello che serve, “wherever it takes”.

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La truffa dei bonus.

“Poiché i prezzi non vengono determinati da maggiori costi di produzione e trasporto, ma da operazioni finanziarie in Borsa, con l’intento tutto politico di contrastare la transizione alle rinnovabili, invece che atteggiamenti compassionevoli verso le fasce di reddito più deboli, una seria azione di contrasto alla speculazione energetica dovrebbe avere le due lame di una stessa forbice…”

I bonus che vorrebbero lenire i dolori sociali provocati dall’aumento generalizzato delle tariffe energetiche sono un modo sfacciato di finanziare la speculazione.

Significa, in realtà, permettere loro di agire sui prezzi senza controllo; significa addirittura rendere più vantaggiosi i rincari, perché paradossalmente finanziati con i cosiddetti bonus, che altro non sono che spesa pubblica in deficit, dunque a carico del contribuente. In altri termini, un doppio guadagno per chi quegli aumenti sta imponendo: il primo per l’aumento, il secondo per l’incentivo all’aumento.

Qual è la via?

Poiché i prezzi non vengono determinati da maggiori costi di produzione e trasporto, ma da operazioni finanziarie in Borsa, con l’intento tutto politico di contrastare la transizione alle rinnovabili, invece che atteggiamenti compassionevoli verso le fasce di reddito più deboli, una seria azione di contrasto alla speculazione energetica dovrebbe avere le due lame di una stessa forbice: a) fasce sociali tariffarie per il sostegno del reddito famigliare; b) aumento delle tasse per i distributori e per i redditi da stock option borsistici degli azionisti.In modo che il punto b finanzi il punto a. E insieme dissuadano la speculazione, così che le due lame della forbice, insieme, taglino di netto gli income fraudolenti delle grandi compagnie e l’aumento della spesa pubblica.

Questo dovrebbe fare subito un governo cui stesse a cuore il patto sociale sancito dalla Costituzione della Repubblica Italiana.

E per questo, ecco la piattaforma minima che andrebbe resa pubblica come forma di lotta sociale per la difesa delle condizioni materiali della stragrande maggioranza degli italiani. Contro il gelo neoliberista, riscaldiamoci i cuori con la lotta alla speculazione, al sopruso dei più forti, alla servitù governativa, all’inconsistenza dei partiti e dei loro impiegati in Parlamento.

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I vaccini da soli non ce la faranno mai.

La pandemia aveva messo in chiaro che il modo di vivere e produrre valore è sbagliato. Perché continuiamo a fare finta di niente?

Attualmente, né le cause del Covid-19, cioè inquinamento e sfruttamento dell’ambiente; né gli effetti, cioè l’impatto della pandemia sui sistemi sanitari, nessuno di questi due problemi sono stati portati a soluzione.

La distruzione degli equilibri ecologici è una conseguenza della devastazione ambientale necessaria allo sviluppo del capitalismo: è questa la ragione principale del salto di specie del virus. Lo sfruttamento insensato della natura genera malattie mortali.

La pandemia aveva poi messo in drammatica evidenza che il modo di gestire la sanità pubblica è sbagliato, perché per ricavare profitto si è indebolita fino quasi ad annullarla la medicina di base, quella territoriale, di prossimità per i singoli, le famiglie, le comunità, a tutto vantaggio della privatizzazione.

Attualmente, né le cause del Covid-19, cioè inquinamento e sfruttamento dell’ambiente; né gli effetti, cioè l’impatto della pandemia sui sistemi sanitari, nessuno di questi due problemi sono stati portati a soluzione.

Il fallimento di Cop 26 di Glasgow non ha permesso di affrontare con chiarezza il vero problema: il profitto smisurato delle grandi compagnie, quotate in Borsa, ha più potere politico ed economico dei governi. 

D’altro canto, nessuna seria misura di controtendenza allo sfruttamento della Sanità  per fare profitti è stata presa dai governi. La privatizzazione della salute pubblica non è stata né ripensata né modificata.  I profitti in Borsa delle Big Pharma sono tali che non c’è nessuna volontà di liberalizzare i brevetti sui vaccini.

La verità, a ormai quasi due anni dalla proclamazione dell’emergenza pandemica, è che il contagio è rallentato nei paesi ricchi, non in tutto il mondo abitato: poco più del cinquanta per cento della popolazione mondiale ha ricevuto solo una dose di vaccino. Nel nostro opulento mondo occidentale siamo al terzo vaccino, ma continuano contagi, ricoveri e decessi.

È più che evidente che da soli i vaccini non sono sufficienti, né per quanto riguarda le quantità prodotte, vendute e somministrate, neppure appaiono sufficienti dal punto di vista delle strategie sanitarie adottate a gestire la pandemia, figuriamoci a sconfiggerla. 

Attualmente, i vaccini sono un potente ricostituente finanziario, che grazie all’emergenza, capitalizza il denaro pubblico dei paesi che oggi comprano e domani presenteranno il conto ai cittadini. Ma sono anche diventati strumenti di controllo e comando sui conflitti sociali, per il solito vecchio paradigma secondo cui un popolo spaventato si governa meglio. Chi lo nega, regala argomenti ai No Vax e a chi li manovra e strumentalizza

La politica, resa impotente dallo strapotere finanziario globale è ridotta a fare da testimonial delle campagne vaccinali, variante dopo variante.  

Le democrazie, gracili e malaticce, affette come sono da convulse crisi ambientali, sociali e sanitarie, andrebbero vaccinate col siero della redistribuzione della ricchezza, per una sana uguaglianza, verso una pronta guarigione dall’ingiustizia sociale. Che è la malattia cronica del capitalismo.

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La presentazione di “Sulle ali della dignità” ha avuto successo.

La sala allestita dalla Biblioteca Goffredo Mameli in via del Pigneto era piena, posti in piedi, nonostante il nubifragio che ha colpito Roma, in concomitanza con l’inizio della presentazione. Accolti da Daniela Ukmar, responsabile della biblioteca, che ha presentato gli ospiti e spiegato il significato della presentazione di “Sulle ali della dignità” in una biblioteca pubblica, punto di riferimento culturale in quella porzione di città, Piero Santonastaso, giornalista che lavora alla comunicazione di Usb, ha condotto il dibattito, al quale hanno partecipato Paolo Maddalena, vicepresidente onorario della Corte Costituzionale; Guglielmo Forges Davanzati, professore di Economia Politica all’Università del Salento; Sergio Rizzo, giornalista e saggista; Marco Ferri e Fabrizio Tomaselli, autore del libro. È stato un incontro che ha coinvolto preziosi interventi dal pubblico, tra cui quello di Gregorio De Falco, senatore della Repubblica. Un pomeriggio in cui si sono confrontati diversi approcci, convergenti sui temi del capitalismo italiano, della funzione dello Stato nel mercato, dei guasti politici e sociali del neoliberismo, della attuale gracilità della democrazia italiana, della necessità di un nuovo, forte protagonismo politico dell’opposizione dal basso al capitalismo. Dal diritto costituzionale all’economia politica, dalla comunicazione al giornalismo, dal sindacalismo di base ai nuovi protagonisti della lotta di classe, ecco come la vicenda Alitalia, il racconto delle lotte dei lavoratori del trasporto aereo, le contraddizioni aperte e non ancora sanate da parte del management pubblico e privato che si sono alternate alla guida di un’azienda oggi ridotta ai minimi termini, sono stati i temi che hanno animato un bel confronto di idee, stimolato da “Sulle ali della dignità” di Fabrizio Tomaselli.

Da sinistra: Sergio Rizzo, Marco Ferri, Piero Santonastaso, Fabrizio Tomaselli, Guglielmo Forges Davanzati, Daniela Ukmar.
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Aspettando Pommidoro.

Una storia romana de Roma.

Da bambino sono stato più volte a pranzo da Pommidoro.

Succedeva la domenica, quando i miei portavano me e le mie sorelle a vedere Roma, poi si andava a San Lorenzo, in piazza dei Sanniti, da Pommidoro. Durante la settimana ci andavano operai e artigiani. Pomodoro è stato sempre uno dei luoghi di Roma.

Nel passato, era una trattoria frequentata dai dirigenti della federazione romana del Pci, che allora era in via dei Frentani. E dai giornalisti dell’Unità e di Paese Sera, che erano in via dei Taurini. Nel tempo è stata anche frequentata da professori della Sapienza, l’Università. E da scrittori e intellettuali. Pasolini, che era a cena con Moravia, mangiò lì per l’ultima volta della sua vita.

Pommidoro era la sicurezza che la genuinità c’era ancora, non solo nei piatti.

Negli anni ci sono stato più volte, come fosse andare a trovare un parente, e subito sentirsi a casa. Senza troppe cerimonie, bastava uno sguardo, una parola giusta nel momento giusto, e mangiare e sentirsi complici di quella serena riluttanza che è una caratteristica dei romani. Ricordo quella volta che, dopo la presentazione di una campagna pubblicitaria per un’azienda che aveva la sede in via Tiburtina, – incontro che non andò affatto bene -, per scacciare la delusione proposi a tutti di andare a pranzo da Pommidoro.

Era il 1 agosto del 1995, ci sedemmo fuori a mangiammo cose buone, gustose e scacciapensieri. I musi lunghi si sciolsero in sorrisi prima e poi in vere e proprie risate.

Il cibo buono mette sempre allegria.Ricordo di aver mangiato, tra l’altro, una eccellente pajata alla brace, – che se me la ricordo ancora dev’essere stata davvero buona.

Cibo e vino sciolsero il ricordo della brutta esperienza, tanto che alla fine del pasto, dopo il dolce e il caffè, con un gesto chiamai il cameriere e gli ordinai un’ajo e ojo per tutti.

Ci fu sgomento tra i commensali, pensarono a uno scherzo. Il cameriere tornò, accompagnato da uno dei proprietari e mi chiese conferma. Dissi che davvero volevamo “dù spaghi ajo e ojo”.

“Anvedi, ahò, questi sì che sanno magnà – disse il cameriere – so’ anni che no ‘o fà più nisuno.” Quando uscì dalla cucina con una fiamminga piena di spaghetti fumanti e profumati d’aglio, anche i camerieri e quelli della cucina vennero a vedere la scena, e tutti gli altri clienti ci guardarono come fossimo forse matti, forse ubriachi, ma con la curiosità di chi non aveva ancora mai visto dal vivo quest’usanza, più mitica che tipica nelle osterie romane di una volta.

E tutta la nostra combriccola si accinse ad arrotolare le forchette.

Qualche tempo fa volevo tornare a pranzo da Pommidoro. Chiamavo, ma non rispondeva nessuno. Per colpa del lockdown, pensavo, non hanno ancora riaperto. Ma le settimane passavano.

Un giorno ho anche chiamato Paola Manfroni, che ha gli uffici della sua agenzia proprio lì vicino. Anche lei era dispiaciuta che Pommidoro non avesse ancora riaperto.

Adesso che Aldo se ne è andato, è giusto che Pommidoro sia chiuso. Se lo merita il lutto, e lo rispetto, come è giusto che sia. Però poi Aldo, e i suoi, si meritano che Pommidoro viva ancora a lungo.

Il che è un altro modo per dire che non vedo l’ora di poter tornare da Pommidoro, uno dei miei luoghi di Roma.

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Alitalia, ovvero cronache di scapitalismo italiano.

Oggi l’Alitalia sta forse vivendo i suoi ultimi mesi di vita ma è ancora possibile intervenire ed invertire positivamente la rotta. Comprendere la storia della compagnia aerea evitando facili generalizzazioni e strumentalizzazioni non è cosa da poco ed è utile per trovare le soluzioni concrete per il rilancio dell’azienda, per salvaguardare l’occupazione e per non svendere un asset così importante per il Paese.
Fabrizio Tomaselli ricostruisce gli eventi che hanno visto come protagonisti l’Alitalia, i suoi lavoratori e la storia del sindacalismo di base nella ex compagnia di bandiera vissuta dagli anni ’80 sino ad oggi, con un focus particolare sugli assistenti di volo. Fatti e notizie, analisi e sensazioni, lotte e mobilitazioni, vittorie e sconfitte, errori e percorsi positivi.  La cronaca di una storia che è ancora oggi sotto i riflettori, analizzata e collocata all’interno di un contesto sociale, politico e sindacale ancora in evoluzione.
Una storia indagata e descritta dal punto di vista dei lavoratori e di chi negli anni ha costruito un percorso sindacale alternativo: un contributo che legge ed interpreta gli eventi intorno ad Alitalia senza il filtro mediatico che per decenni ha avvolto quest’azienda ed i suoi lavoratori.
 
L’autore:
Fabrizio Tomaselli (Roma, 1957) è stato assistente di volo in Alitalia dal 1983 al 2009. Tra i fondatori del sindacalismo di base nel trasporto aereo ha partecipato e condotto direttamente a gran parte delle trattative con Alitalia e con il Governo sino al 2008. Ha lasciato la partecipazione attiva nel sindacato nel 2017.
 
La foto di copertina è lo scatto fotografico dal vivo per una campagna di affissioni a Roma e a Milano. I protagonisti della foto sono lavoratrici e lavoratori di Alitalia. Gli autori della campagna furono Agostino Reggio (1951-2013), Art Director e Marco Ferri (Roma, 1955), copywriter. 
 
Sulle ali della dignità di Fabrizio  Tomaselli, è acquistabile su Youcanprint.it e nelle principali librerie on-line tra le quali La Feltrinelli, Kobo, Ibs.it, Mondadori, Amazon, Apple, Google play, Barnes&Noble.com, e su ordinazione anche in libreria.
 
“Scapitalismo italiano” è il titolo della prefazione al libro.

Scapitalismo italiano.

di Marco Ferri

Quest’Italia, tanto favorita dalla natura, 

è rimasta enormemente indietro rispetto 

agli altri paesi per tutto quello ch’è 

meccanica e tecnica, sulle quali 

senza dubbio si fonda ogni progresso 

verso un’esistenza più comoda e più sciolta.” 

(“Viaggio in Italia”, Johann W. Goethe.)

Così scrivono Eugenio Scalfari e Peppino Turani in  “Razza padrona – storia della borghesia di stato, [nel quinto capitolo, intitolato “Il saccheggio”, Feltrinelli Editore, 1974, pagina 353]: “Il saccheggio è stato certamente uno degli impegni prevalenti della Montedison a partire dal 1971. [anno dell’avvento di Cefis alla presidenza]. A subire il suo assalto sono stati in tanti: i lavoratori, i consumatori, il Mezzogiorno, certi enti pubblici, certi enti a partecipazione statale, gli azionisti, i risparmiatori, il sistema industriale italiano e persino alcune regole della buona contabilità aziendale.” 

Basterebbe mettere Alitalia al posto di Montedison per avere un’esatta fotocopia della storia di Alitalia, dei suoi azionisti, dei lavoratori, dei passeggeri, dei profitti privati e dei debiti pubblici accumulati negli anni. Un esempio di scuola dello “scapitalismo italiano”.

La tesi degli autori di “Razza padrona” era caldeggiare una convergenza di vertice tra il Pci e le grosse famiglie imprenditoriali italiane, insomma la famosa formula “dell’alleanza dei ceti produttivi contro i ceti parassitari.” 

La tesi sostenuta da Fabrizio Tomaselli in questo avvincente racconto in presa diretta la troviamo nelle conclusioni: “Si deve indicare la strada giusta, quella che porta alla costruzione di una compagnia aerea inserita in un sistema paese che la consideri, insieme all’intero trasporto aereo nazionale, un fattore di sviluppo e non un costo, un asset industriale che contribuisca a creare  occupazione e ricchezza per l’intero paese.”

Ed ecco il punto. La privatizzazione di Alitalia, nell’ambito della grande strategia di dismissione dei beni pubblici, non ha creato valore per il paese, come era nelle premesse delle grandi privatizzazioni, propugnate dagli epigoni di Milton Friedman e delle teorie neoliberiste, che sono rapidamente dilagate nel capitalismo globale, fino a far ingresso nei partiti di sinistra.

La privatizzazione ha gonfiato gli stipendi dei manager che si sono avvicendati al banchetto degli investimenti per ripianare i debiti privati con il denaro pubblico.

Nel frattempo l’ha indebolita, fino a renderla incapace di reagire alla concorrenza interna e internazionale; ha alimentato, in certi momenti foraggiato la filiera della clientela politica; ha trasformato le grandi organizzazioni sindacali in soggetti “embended” alle strategie aziendali fine a se stesse, cioè alle cordate che si sono avvicendate; ha fatto male alla professionalità dei dipendenti, primi fra tutti dei naviganti, e di conseguenza all’occupazione. 

Parafrasando lo schema di “Razza padrona”, che però andrebbe capovolto, Alitalia era più produttiva prima che finisse nelle mani e nelle fauci di ceti parassitari, travestiti da “capitani coraggiosi”.

Nelle pagine che scorrerete come fosse un thriller, – nel quale il serial killer è il capitalismo italiano, e i suoi complici sono stati governi, partiti e vertici dei sindacati confederali – Tomaselli ci racconta di un investigatore collettivo, che ha scoperto volta per volta i colpevoli, li ha smascherati, denunciati, con il candore e il coraggio di chi sapeva di verità che nessuno voleva ascoltare.

L’investigatore collettivo è il protagonista di questa puntigliosa, dettagliata fino alla pignoleria, narrazione di quarant’anni di lotte dei lavoratori del trasporto aereo. Giovani donne e uomini che, sfuggendo a ogni previsione sociologica, sono diventati soggetti attivi non solo delle vertenze sindacali, ma di una visione complessiva delle contraddizioni provocate dalle sconsiderate gestioni padronali. 

Scrive Tomaselli che questo libro è: “Una cronistoria, un diario di viaggio, passaggi importanti che si snodano dai primi anni ’80 a oggi, esperienze personali e collettive, fasi drammatiche della vita di decine di migliaia di lavoratori, vittorie e sconfitte, senza mai dimenticare il contesto generale nel quale si sviluppano questi eventi.

Aggiunge Massimo Giuli, assistente di volo, tra i primi protagonisti dell’organizzazione sindacale di base tra il personale Alitalia, che firma un intervento introduttivo: “Attraverso le lotte autonome e fortemente antagoniste che li videro protagonisti, [i lavoratori] seppero ripristinare un corretto esercizio della democrazia sindacale, darsi nuovi modelli organizzativi indipendenti dal mondo confederale attraverso i quali riproporre con forza i propri obiettivi e delineando i principi costitutivi all’origine del  sindacalismo di base dei primi anni ’80.

Dunque, questo è un libro su una storia i cui capitoli sono ancora da scrivere, come dimostrano gli avvenimenti che tutt’ora l’attualità politica e sindacale ci propone. D’altronde, come Antonio Labriola ci avvertirebbe “Il tempo storico non è corso uniforme per tutti gli uomini. Il semplice succedersi delle generazioni non fu mai l’indice della costanza e dell’intensità del processo.”

Infatti, scrive Tomaselli: “Esperienze che forse potrebbero servire a chi vuole approfondire lo studio del trasporto aereo e di Alitalia ed anche a chi oggi ha deciso di impegnarsi nel sindacato. Un insieme di riflessioni personali e collettive, di lotte, di contraddizioni, di vittorie e di sconfitte, di strategie vincenti e di errori, che potrebbero forse essere utili.”

Fabrizio Tomaselli è stato un assistente di volo e un sindacalista di base, “ho sempre rifiutato l’etichetta di “sindacalista”: preferivo dire “faccio sindacato” per distinguermi da chi invece vive questo impegno come una professione ed utilizza il sindacato per scopi estranei dall’interesse di chi lavora.

In effetti, l’organizzazione sindacale, le battaglie sui diritti dei lavoratori hanno fatto non solo crescere cultura politica e consapevolezza sociale di almeno tre generazioni di lavoratori del trasporto aereo italiano, ma hanno cambiato la percezione del loro lavoro e della loro dignità presso l’opinione pubblica. 

Non è stato facile. “..in categoria divennero storiche le parole di Umberto Nordio [dirigente IRI, in Alitalia dal 1972 al 1988] che riportiamo da Panorama del 3 aprile [1979]: -Ma cosa volete trattare. Questi sono camerieri, è una categoria indifendibile. E poi gli steward fanno traffici strani, e le hostess anche di peggio -… Insomma, gli steward sono contrabbandieri e le hostess mignotte” chiosa Fabrizio Tomaselli. 

Boiate dei boiardi di Stato. Pensate se oggi sarebbe possibile che un alto dirigente si esprimesse in questo modo sprezzante nei confronti  del personale della propria azienda. Sarebbe un tale danno d’immagine verso la clientela che gli azionisti lo prenderebbero a pedate nel didietro. Ma questo è stato il clima, favorito dalla stampa compiacente, in cui hanno mosso i primi passi le rivendicazioni dei dipendenti di Alitalia.

Scrive Massimo Giuli: “Gli assistenti di volo sono stati parte integrante della nuova composizione sociale che veniva costituendosi nel settore terziario dell’economia, nei trasporti e in modo particolare nel trasporto aereo. Una composizione sociale contigua ma, al tempo stesso, lontana dalle modalità e dai percorsi in cui si esprimevano le tematiche rivendicative del movimento dei lavoratori organizzato della democrazia sindacale, darsi nuovi modelli organizzativi indipendenti dal mondo confederale attraverso i quali riproporre con forza i propri obiettivi e delineando i principi costitutivi all’origine del  sindacalismo di base dei primi anni ’80.” 

Il che spiega, certamente non giustifica, il livore della dirigenza contro i lavoratori più attivi e coscienti, sicuramente dotati di una capacità d’analisi nettamente superiore al livello espresso dalla classe dirigente d’azienda, spesso arruolata tra raccomandati di questo o quel politico, che così contraccambiava il consenso elettorale.

Anche perché si è tentato di tutto pur di non ascoltare le istanze dei lavoratori organizzati, che se prese in considerazione non avrebbero permesso lo scempio di denaro, lo spreco di strategie e politiche industriali che la lunga vicenda Alitalia sta lì a rappresentare, come un dito accusatore contro il capitalismo italiano, la sua miopia, ingordigia, malaffare e inettitudine, tutti quei difetti cronici pagati dai lavoratori, le loro famiglie e dal paese tutto. 

Fabrizio Tomaselli ha fatto con questo libro un gran lavoro. Non è facile prendere le distanze,con la freddezza necessaria che serve alla ricostruzione dei fatti e dei loro significati, per chi di quegli avvenimenti è stato protagonista e molto spesso promotore, esercitando una leadership riconosciuta e rispettata nella sua categoria e nel movimento sindacale di base italiano.

Eppure queste pagine, dense e scorrevoli, avvincenti e documentate stanno a dimostrare che la sfida con se stesso Tomaselli l’ha vinta, a tutto vantaggio del lettore.

Non solo. Queste pagine colmano un vuoto di documentazione e, conseguentemente, di riflessione su una lunga teoria di episodi che sono entrati a far parte della storia del movimento dei lavoratori italiani. Pagine utili a chi ha preso il testimone dell’impegno sindacale, nella generazione politica successiva a quella di Tomaselli. Ma molto utili anche a chi voglia studiare a fondo i rapporti e gli scontri fra capitale e lavoro e le loro evoluzioni e trasformazioni tra la fine del Novecento e il primo ventennio del Duemila. Per certi versi è un’inchiesta, senza la quale sarebbe impossibile capire e agire. 

Alitalia è stato un laboratorio, in cui sono passate privatizzazioni e globalizzazione, capitale pubblico e privato, valori di Borsa e convenienze politiche, clientele e inefficienze, lauti compensi e precarizzazione, propaganda liberista e inconsistenza manageriale, asservimento dei vertici confederali e ribellione della base, cogestione e conflitto.

E fallimento di paradigmi gestionali, ma anche di inefficacia di proposte politiche.

A un certo punto di “La storia della rivoluzione russa”, la cui pedante, minuziosa, pignola ricostruzione dei fatti, momento per momento, ricorda – facendo le debite proporzioni – questo libro, Trotsky scrive: “Che una classe s’incarichi di trovare una soluzione a problemi che interessano un’altra classe, è una delle combinazioni caratteristiche dei paesi arretrati.” 

Il che rimanda al fatto che le relazioni industriali, per quanto possano essere rigorose nel rispetto dei ruoli e piene di prospettive suggestive; che l’azione sindacale, per quanto sia una spinta che provenga dal basso, dalla base; che i piani industriali, per quanto innovativi possano sembrare; nessuno di questi fattori – sia singolarmente presi in considerazione che combinati fra loro da politiche espansive  – riescono a cambiare i rapporti di forza.

Il caso Alitalia sta a dimostrare che il capitalismo in generale, ma quello italiano in particolare, sfugge all’idea di riformare il suo modo di fare profitto; che la “distruzione creativa” è nella sua natura, esattamente come quella dello scorpione che uccide la rana anche se affogherà essa stessa  tra le rapide del fiume. 

“A prescindere da quel che farà il governo è fondamentale che i lavoratori riprendano rapidamente parola e che diventino nuovamente i primi protagonisti di questa assurda storia di Alitalia che per tanti versi sembra lo specchio della situazione di un paese dove le responsabilità non emergono mai del tutto e dove a farne le spese è sempre chi lavora, chi il lavoro non lo ha o chi lo perde …ma anche questa è un’altra storia!”, scrive Tomaselli.

Ecco. Questo libro ci aiuta a capire che il protagonismo politico, non solo sindacale, dei lavoratori deve tornare a essere la forza motrice del cambiamento. Lo sa anche Tomaselli quando scrive “…ma questa è un’altra storia!”.

La storia di come sconfiggere lo “scapitalismo italiano”.

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Attualità

Patriarcato compassionevole.

Perché gli uomini dedicano i loro premi alle donne?

“Il paradosso è che la dedica è di nuovo un gesto di supremazia patriarcale.”

A Stoccolma, Dario Fo dedicò il Nobel a Franca Rame; a Los Angeles, Ennio Morricone l’Oscar a sua moglie; e da ultimo, Roberto Benigni il Leone d’oro a Nicoletta Braschi. Tre esempi di talento, tre ambiti diversi dello spettacolo, tre figure rispettabilissime, prese solo ad esempio, che però hanno in comune il senso di colpa, quello di aver potuto usufruire, senza remore e per tutta la vita, del lavoro delle donne che gli sono state vicine. 

Ma il paradosso è che la dedica è di nuovo un gesto di supremazia patriarcale, – benevola, poetica, se volete anche appassionata-, ma pur sempre un gesto di potere: la dedica alla donna è un premio di seconda mano, di consolazione, una specie di risarcimento simbolico, utile a quella “captatio benevolentiae” che tanto gratifica l’esercizio del potere di un genere sull’altro. 

Siamo un paese con lunghe, solide e molto ben radicate tradizioni maschiliste, tanto da aver imparato a esercitarle in tutte le salse, in tutte le occasioni, in tutte le stagioni della vita: parafrasando, direi che il maschio latino nasce predatore, – del corpo ma anche dell’esistenza della femmina – e invecchia come patriarca compassionevole, che si auto gratifica della propria benevolenza, come premio alla carriera virile. 

Insomma, nasciamo maschi e, nella speranza di essere ricordati come veri uomini, escogitiamo il più banale trucco ipocrita: ringraziamo impunemente – e soprattutto pubblicamente – chi non ha potuto esprimere se stessa al meglio perché dedita al successo dell’eroe, che è tale solo per grazia, femminile, ricevuta. Una doppia gratificazione per lui, ma una doppia frustrazione per lei, che deve risplendere ancora una volta solo di luce riflessa. 

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Attualità

La guerra evolve sempre, la pace mai.

La guerra dei droni.

La guerra evolve sempre, la pace mai. Secondo Riccardo Luna (https://www.italian.tech/…/l_aghanistan_e_il_primo…/…), l’attacco Usa che avrebbe sventato un attentato contro l’aeroporto di Kabul, che come “danno collaterale” ha distrutto un appartamento, uccidendo una decina di civili, bambini compresi, sarebbe stato condotto da droni, guidati da algoritmi in grado di prendere decisioni senza l’intervento umano. È l’ultima, finora, frontiera della cyber war: “the artificial intelligence war” sostituisce “boots in the ground”, motivo per cui gli Usa se ne vanno, ma la presenza militare rimane, affidata ai droni killer, che è la nuova strategia militare voluta da Biden.

È una guerra fantascientifica, che si combatte con o senza “humans in the loop”, cioè senza che sia un essere umano a premere direttamente il grilletto. Solo i morti sono veri. Ci penseranno i robot. Letteralmente, penseranno loro.

Ricapitolando: una volta le “bombe intelligenti” sganciate dai piloti facevano vittime civili. Poi i militari sul terreno aprivano il fuoco, senza tanti accorgimenti, provocavano vittime innocenti. Quando si colpivano fra loro, lo chiamavano “fuoco amico”. Oggi gli algoritmi, creati da ingegneri, guidano droni che fanno vittime civili.

Qual è il punto? La guerra evolve, diventa sempre più sofisticata e tecnologica, ma il risultato non cambia: terrorizzare, uccidere e distruggere.

Morale: l’algoritmo è stato progettato per diminuire le vittime tra gli attaccanti, mica per escludere vittime innocenti. Nessuno ha inventato un algoritmo per la pace. Si vede che non conviene.

D’altronde, andarsene in quel modo dall’Afghanistan è stato fatto in totale disprezzo delle conseguenze sulla popolazione civile. La guerra evolve sempre, la pace mai.

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Attualità

Dannazione donna.

Debutta per la prima volta a Pordenonemercoledì 25 agosto,Dannazione donna” di Marco Ferri, con la regia di Francesco Bressan. Attrice protagonista Stefania Moras.

“Dannazione donna” è atto unico, in tre quadri per una sola protagonista, sul ruolo delle donne in azienda. 

Perché essere donna è una dannazione?

Quando ho scritto “Dannazione donna” la questione del gender gap, anglicismo con cui si definisce la differenza del trattamento economico tra uomini e donne, non era ancora di pubblico dominio.

I movimenti femministi la posero all’attenzione della pubblica opinione globale proprio quell’anno, col primo sciopero internazionale indetto l’8 marzo 2017. Il testo lo avevo scritto a gennaio mentre a novembre di quell’anno andammo in scena per la prima volta a Roma e, sebbene la questione non fosse ancora molto diffusa, – e la sensazione era quella di aver precorso i tempi -, “Dannazione donna “ ebbe un deciso successo. 

La mia opinione è che la questione della disparità economica sia il punto centrale della discriminazione di genere. In una società dove tutto è legato alla catena del valore, se vali meno, conti meno, con la conseguenza che ti vengono riconosciuti meno diritti, come se tu avessi comunque meno voce in capitolo. 

In “Dannazione donna” c’è anche un preciso riferimento al cosiddetto “tetto di cristallo”, cioè le difficoltà che le donne trovano ad arrivare ai vertici. Dal mio punto di vista la questione vera è che le donne sono comunque costrette a muoversi in ambienti lavorativi la cui organizzazione, i cui valori, la stessa valutazione del merito, sono tipicamente maschili, spesso maschilisti. In altri termini: una donna è valida se sa comportarsi come un uomo. 

Questo significa che a parità di obiettivi professionali, una donna deve comunque faticare molto, molto di più, anche in considerazione del fatto che porta con sé come minimo un altro compito, spesso assai gravoso, quanto dato per scontato, il ruolo, cioè, della cura delle relazioni coniugali, filiali, familiari. 

Il che vale per tutte, anche per le donne dello spettacolo, il cui lavoro non può comunque prescindere dagli obblighi della gestione delle problematiche familiari cui sono inesorabilmente chiamate. 

Probabilmente, assistere a “Dannazione donna” fa bene alla possibilità di allargare i propri orizzonti su queste urgenti questioni, che interpellano il nostro modello economico, la divisione sociale del lavoro, e la stessa qualità delle relazioni tra i sessi. 

Marco Ferri – luglio 2021

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Attualità

Afghanistan, per loro e per noi il problema siete voi.

“Vi riunirete in G7 e poi in G20 per cosa, se non per gestire il cambio di passo militarista che ha imposto l’Amministrazione Biden, che in Afghanistan ha sparigliato le carte rovesciando il tavolo addosso agli alleati, che si ostinano, come valletti servili, a non capire di essere semplicemente sudditi di scelte strategiche decise fuori dal perimetro democratico del nostro paese e della stessa Ue.”

Non fate i furbi: l’occidente l’onore e la credibilità le ha perse quando ha invaso l’Afghanistan 20 anni fa. Per poi continuare la devastazione dell’Iraq e della Siria.

Non fate i furbi, perché la ritirata dall’Afghanistan è niente rispetto a migliaia di morti, feriti e mutilati, tonnellate di bombe, centinaia di migliaia di armi, miliardi di dollari e di euro impiegati al solo scopo di occupare una parte di mondo lasciata libera dalla sfera di influenza russa, dopo la Caduta del Muro.

Non fate i furbi. Avete ingaggiato un gioco al Risiko demente, inutile, e alla fine grottesco, di una gravità enorme, che ha fatto degli Usa e della Nato un’associazione di idioti, guerrafondai, dei neocolonialisti da war game per ragazzini con disturbi del comportamento.

Non fate i furbi, perché i governi e le maggioranze parlamentari che in Italia si sono alternati hanno appoggiato, favorito e foraggiato questo fallimento, con denaro pubblico, sottratto alla Sanità, all’Istruzione, alla Previdenza, agli Enti Locali, alla solidarietà.

Non fate i furbi. Dopo aver eseguito gli ordini emanati dal Pentagono come fedeli cani da caccia, oggi state di nuovo dicendo “signorsì” alla “transizione” cyber e tecnologica bellicista, con la stessa logica imperiale, che ieri chiamavate “guerra al terrirismo” e oggi definite “atlantismo”.

Non fate i furbi. Per anni avete osteggiato, vilipeso e perseguitato le Ong, con la stessa logica fascistoide che pretende il disprezzo contro i volontari e gli aiuti umanitari, e oggi le strumentalizzate goffamente per tacitare l’indignazione dell’opinione pubblica. Come al solito, prima mentite poi ingannate.

Non fate i furbi. Vi riunirete in G7 e poi in G20 per cosa, se non per gestire il cambio di passo militarista che ha imposto l’Amministrazione Biden, che in Afghanistan ha sparigliato le carte rovesciando il tavolo addosso agli alleati, che si ostinano, come valletti servili, a non capire di essere semplicemente sudditi di scelte strategiche decise fuori dal perimetro democratico del nostro paese e della stessa Ue.

Non fate i furbi. La guerra si può fare da remoto, il G7 può essere una video conferenza, i rapporti diplomatici possono essere intessuti via web. Ma i popoli che avete tentato malamente di soggiogare con la violenza, la speculazione, la corruzione no. Quelli sono reali, non virtuali. Così come reali sono i cittadini, i lavoratori, le donne e i giovani in Italia e in Europa cui avete sottratto grandi porzioni di stato sociale per finanziare “l’import-export” della democrazia, una delle più rivoltanti panzane mai inventate dagli spin-doctor, in servizio permanente effettivo presso la Cia.

Non fate i furbi. Perché finalmente lo abbiamo chiaro: gli italiani e gli afghani hanno lo stesso maledetto problema. Per loro e per noi il problema siete voi.

“Per anni avete osteggiato, vilipeso e perseguitato le Ong, con la stessa logica fascistoide che pretende il disprezzo contro i voltati e gli aiuti umanitari, e oggi le strumentalizzate goffamente per tacitare l’indignazione dell’opinione pubblica.”
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Attualità

Gli spettri che si agitano nella pubblicità italiana.

“La creatività è il fantasma del palcoscenico della comunicazione italiana.”

Due figure retoriche sono insistentemente utilizzate nella comunicazione commerciale di questi mesi: l’italianità e la sostenibilità.

La prima è una forzatura del tutto spompata dalla realtà dei fatti. Ogni giorno la stampa denuncia l’inconsistenza fattuale dell’asserita italianità di molti prodotti in commercio, perché nel mercato globale la circolazione delle merci non viene regolata dalla nazionalità, quanto piuttosto dalla catena del valore: se di una materia prima, ma anche seconda, è più conveniente l’importazione, la logica del profitto vieta che si acquisti nello stesso paese in cui si produce la merce finale. A volte se ne deve occupare la Magistratura, che impone rettifiche sulle etichette.

E, infatti, abbiamo avuto notizia di noti consorzi di tipici prodotti italiani e famose marche casearie che acquistano, per esempio, il latte da paesi che hanno costi e disciplinari più laschi dei nostri. Lo stesso vale per il grano con cui in Italia si produce la pasta. E vale per l’olio d’oliva, il pomodoro, la frutta. E quando l’azienda che la confeziona è italiana, ma si avvale dello sfruttamento schiavistico di manodopera straniera per la mungiture o la raccolta stagionale, ci sarebbe poco da andare fieri dell’italianità di quei prodotti. 

“E quando l’azienda che la confeziona è italiana, ma si avvale dello sfruttamento schiavistico di manodopera straniera per la mungiture o la raccolta stagionale, ci sarebbe poco da andare fieri dell’italianità di quei prodotti.” 

La cosa vale anche per il ciclo dell’auto, che grazie alle delocalizzazioni, viene prodotto in altri paesi europei, perché il costo del lavoro, ma anche la tassazione, è più conveniente. 

Durante la pandemia, abbiamo poi scoperto, ad esempio, che la stragrande maggioranza delle attrezzature sanitarie le compriamo all’estero, che anche le mascherine, i guanti chirurgici, i camici, le siringhe provengono da aziende basate all’estero.

Ecco allora che l’italianità è un bluff che rischia seriamente di mancare di rispetto all’intelligenza dei consumatori, che portano a casa confezioni con il tricolore nel packaging, ma che dentro d’italiano hanno ben poco, e quando c’è, sarebbe più giusto proprio non acquistarli, per non contribuire alla catena dello sfruttamento bestiale. 

Ci sarebbe poi da aggiungere che questo modo un po’ sguaiato di strombazzare l’italianità di certi prodotti non fa per niente bene all’idea commerciale del “made in Italy”, che invece gode di un’ottima reputazione, in Italia e all’estero. 

Nel migliore dei casi, che il prodotto sia italiano, è un argomentazione comparativa, dunque difensiva rispetto alla concorrenza, rinunciataria al confronto con le reali esigenze del consumatore, che è sempre meglio prendere in considerazione e sviluppare in comunicazione.


“A volte se ne deve occupare la Magistratura, che impone rettifiche sulle etichette.”

Veniamo alla sostenibilità, il secondo spettro che s’aggira nelle campagne pubblicitarie sui social, in tv, sui quotidiani, on line e di carta. 

Tariq Fancy, ex dirigente del fondo americano BlackRock (blackrock.com) – il più grande fondo d’investimenti del mondo – in un’intervista rilasciata a valori.it ha detto: “Lavorare sugli investimenti sostenibili significa guardare in questo senso l’intero processo: tutti gli 8.700 miliardi di dollari di asset in gestione (di BlackRock, ndr). Significa inoltre creare prodotti specifici a basso impatto. Io ho lavorato sui due aspetti e posso dire, sinceramente, che in entrambi i casi non abbiamo creato alcun valore sociale misurabile.” 

E quando gli è stato chiesto il perché, ha risposto: “Vede, con i prodotti sostenibili le persone si sentono a posto con la coscienza, perché pensano che i loro capitali e risparmi siano investiti su cose che loro hanno a cuore. La realtà è che le aziende non fanno business green perché è utile per il Pianeta: lo fanno quando esso è utile per generare profitti sul breve termine. 

Tutti agiscono secondo precisi imperativi economici: il paradigma è sempre lo stesso. Esistono ancora numerosi business che non ci piacciono, ma che restano redditizi per molte aziende. È così per il lavoro da schiavi nella catena di approvvigionamento di una casa di moda ed è così per le emissioni di CO2 di un’industria.” 

Se dalla grande finanza, atterriamo nella realtà del modo di produrre delle società di servizi o di prodotti con i quali abbiamo frequenti contatti, perché è da loro che acquistiamo i servizi e i prodotti di tutti i giorni, non possiamo non prendere atto che il problema è esattamente lo stesso. 

E allora, perché nascondersi dietro la parola “sostenibilità” che allo stato non è un fatto, ma solo un’intenzione, di là da venire, cioè che potrà succedere solo quando sarà più profittevole del vecchio modo di produrre?

“L’energia elettrica è nella maggior parte dei casi ancora prodotta grazie ai combustibili fossili.”

Prendiamo il mito dell’auto elettrica come totem della green economy. L’energia elettrica è nella maggior parte dei casi ancora prodotta grazie ai combustibili fossili. Senza contare che il litio delle batterie da ricaricare presenta problematiche ambientali. Su modo.volkswagen.it si può leggere: “Le inchieste sull’estrazione del litio nelle saline sono all’ordine del giorno. In alcune aree gli abitanti lamentano un aumento della siccità, che mette a dura prova gli allevamenti di bestiame o fa seccare la vegetazione. Per gli esperti non è ancora chiaro se la siccità prolungata sia effettivamente collegata, e in quale misura, all’estrazione di litio.”

Dunque, la grande casa automobilistica tedesca non nega le problematiche all’estrazione litio, che danno vita a proteste dei contadini e degli allevatori in Australia e in America Latina. Tanto che leggiamo: “Il Gruppo Volkswagen, BASF, Daimler e Fairphone tengono in grande considerazione le proprie responsabilità lungo l’intera catena di approvvigionamento, inclusa la due diligence per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani durante l’estrazione e la produzione delle materie prime. La “Responsible Lithium Partnership” vuole promuovere lo sviluppo sostenibile, ridurre i potenziali impatti negativi e rafforzare la tutela dei diritti umani.” 

“Dunque, la grande casa automobilistica tedesca non nega le problematiche all’estrazione litio, che danno vita a proteste dei contadini e degli allevatori in Australia e in America Latina.”

Se cercavate un esempio di greenwashing,  neologismo anglofono col quale si definisce l’ambientalismo di facciata, eccolo servito, bell’è pronto per l’uso.

Il fatto è che, come ci spiega Tariq Fancy: “Il sistema capitalista è basato sul risultato di breve termine. I manager sono obbligati legalmente a cercare di massimizzare i ritorni sugli investimenti. E finché non interverranno i governi con regole stringenti, non potrà cambiare nulla.”

D’altra parte, una tipica batteria agli ioni di litio è in grado di generare circa 3 Volt per cella, contro i 2,1 Volt della batteria al piombo o gli 1,5 Volt per celle zinco-carbone. Costa meno, scalda meno, ha più potenza, dura di più. Dal che si possono facilmente intuire i benefici effetti economici per gli azionisti, che però sono sempre destinati a prevalere sull’ambiente e sui i suoi abitanti. 

Se la transizione ecologica trova ostacoli per esempio con le batterie al litio che verranno utilizzate sempre di più, un altro componente fondamentale sia della transizione ecologica che digitale è fortemente critico.

“Prendiamo il mito dell’auto elettrica come totem della green economy.”

Se state leggendo queste righe vuol dire che siete in possesso di un pc, di uno smartphone o di un tablet. Gli apparecchi digitali sono la prova tangibile dell’innovazione, di un futuro promettente e, soprattutto, alla portata di tutti. 

Per funzionare gli apparecchi digitali hanno bisogno del Coltan. Il coltan serve ad ottimizzare il consumo di energia nei chip di nuova generazione, portando un notevole risparmio energetico e a ottimizzare, quindi, la durata della batteria. 

Bello, no? 

“Ecco allora che in Congo le milizie controllano i giacimenti e utilizzano manodopera minorile.” 

Oltre tutto, l’estrazione del coltan, poi, non è granché difficoltosa, se non fosse per alcuni dettagli, chiamiamoli così, non proprio innovativi: bisogna avere il controllo militare del territorio e il possesso dei corpi di chi lavora nelle miniere di Coltan. Ecco allora che in Congo le milizie controllano i giacimenti e utilizzano manodopera minorile. Un rapporto di “Medici senza frontiere” spiega che molti di questi ‘schiavi’ muoiono di fatica e di diverse malattie che questo minerale può portare: compromissione di cuore, vasi sanguigni, cervello e cute; riduzione della produzione di cellule ematiche e danneggiamento dell’apparato digerente; aumento dei rischi del cancro; difetti genetici nella prole; malattie dell’apparato linfatico. 

“Questi schiavi bambini sono molto simili ai “carusi”, quei ragazzini che all’inizio dello scorso secolo venivano “utilizzati” nelle miniere di zolfo, nella Sicilia profonda.”  

Questi schiavi bambini sono molto simili ai “carusi”, quei ragazzini che all’inizio dello scorso secolo venivano “utilizzati” nelle miniere di zolfo, nella Sicilia profonda. 

La domanda è: tutto questo è davvero “sostenibile”?

Senza contare che i consumatori sono a tutti gli effetti cittadini, per tanto le persone avrebbero il diritto di essere considerate parte integrante dell’ambiente naturale e sociale in cui vivono, e quindi non subire l’inquinamento mentale prodotto da sotterfugi propagandistici. Insomma, la comunicazione dovrebbe essere sostenibile. 

Infatti, “finché non intervengono i governi con regole stringenti”, come dice  Tariq Fancy,  la sostenibilità è ancora un dibattito sociale, economico e politico che stimola la ricerca di un modello di sviluppo compatibile con la creazione del valore, la difesa dell’ambiente, la tutela della democrazia e quindi dei diritti delle persone.

Quando se ne parla in pubblicità è forte il rischio di semplificazioni sbagliate. E ancora una volta si sfida, in modo sleale, l’intelligenza dei clienti delle aziende, dei consumatori di prodotti e servizi, vantando una sostenibilità che in effetti non c’è ancora. 

Emanuele Pirella (1940-2010).

Bisognerebbe che si fosse meno pigri e dunque meno conformisti. Ci sono altri argomenti che possono sostenere il successo dei brand e la qualità dei loro prodotti e servizi, senza scomodare gli spettri di argomentazioni poco convincenti in partenza. Bisogna essere onesti e coraggiosi. Cioè, creativi. 

La creatività è il fantasma del palcoscenico della comunicazione italiana.

Roberto Calasso (1941-2021), nel suo “Bobi” (Adelphi) ci ricorda che a volte:“[…] Occorreva partire da zero. E subito scartare la qualifica di intellettuale, parola che, secondo Jules Renard, ha senso solo come aggettivo”.

Qui, dunque, mi permetterei un suggerimento sul senso delle parole: evitiamo sempre di rendere “italianità” e “sostenibilità” anche come aggettivi. E proporrei un procedimento: proviamo a parlare, per esempio, di sostenibilità, senza nominarla e capiremo se gli argomenti reggerebbero, senza doversi aggrappare alla ciambella di una figura retorica che altrimenti affogherebbe nella banalità del nulla. Vale a dire: parlare di fatti è meglio di enunciare intenzioni. Che, se ci pensate bene, è il talento dei bugiardi. 

Anche e soprattutto in pubblicità, terreno sul quale vale la regola che ci ricordava Emanuele Pirella (1940-2010): “La pubblicità deve dire la verità, solo la verità, tutt’altro che la verità”. Che è un altro modo per dire: mai mentire senza pudore, ritegno, rispetto per il lettore, l’ascoltatore, lo spettatore. Che è la differenza tra la propaganda e la comunicazione.

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Attualità

Spettri che si aggirano nella pubblicità italiana.

“La creatività è il fantasma del palcoscenico della comunicazione italiana.”

Due figure retoriche sono insistentemente utilizzate nella comunicazione commerciale di questi mesi: l’italianità e la sostenibilità.

La prima è una forzatura del tutto spompata dalla realtà dei fatti. Ogni giorno la stampa denuncia l’inconsistenza fattuale dell’asserita italianità di molti prodotti in commercio, perché nel mercato globale la circolazione delle merci non viene regolata dalla nazionalità, quanto piuttosto dalla catena del valore: se di una materia prima, ma anche seconda, è più conveniente l’importazione, la logica del profitto vieta che si acquisti nello stesso paese in cui si produce la merce finale. A volte se ne deve occupare la Magistratura, che impone rettifiche sulle etichette.

E, infatti, abbiamo avuto notizia di noti consorzi di tipici prodotti italiani e famose marche casearie che acquistano, per esempio, il latte da paesi che hanno costi e disciplinari più laschi dei nostri. Lo stesso vale per il grano con cui in Italia si produce la pasta. E vale per l’olio d’oliva, il pomodoro, la frutta. E quando l’azienda che la confeziona è italiana, ma si avvale dello sfruttamento schiavistico di manodopera straniera per la mungiture o la raccolta stagionale, ci sarebbe poco da andare fieri dell’italianità di quei prodotti. 

“E quando l’azienda che la confeziona è italiana, ma si avvale dello sfruttamento schiavistico di manodopera straniera per la mungiture o la raccolta stagionale, ci sarebbe poco da andare fieri dell’italianità di quei prodotti.” 

La cosa vale anche per il ciclo dell’auto, che grazie alle delocalizzazioni, viene prodotto in altri paesi europei, perché il costo del lavoro, ma anche la tassazione, è più conveniente. 

Durante la pandemia, abbiamo poi scoperto, ad esempio, che la stragrande maggioranza delle attrezzature sanitarie le compriamo all’estero, che anche le mascherine, i guanti chirurgici, i camici, le siringhe provengono da aziende basate all’estero.

Ecco allora che l’italianità è un bluff che rischia seriamente di mancare di rispetto all’intelligenza dei consumatori, che portano a casa confezioni con il tricolore nel packaging, ma che dentro d’italiano hanno ben poco, e quando c’è, sarebbe più giusto proprio non acquistarli, per non contribuire alla catena dello sfruttamento bestiale. 

Ci sarebbe poi da aggiungere che questo modo un po’ sguaiato di strombazzare l’italianità di certi prodotti non fa per niente bene all’idea commerciale del “made in Italy”, che invece gode di un’ottima reputazione, in Italia e all’estero. 

Nel migliore dei casi, che il prodotto sia italiano, è un argomentazione comparativa, dunque difensiva rispetto alla concorrenza, rinunciataria al confronto con le reali esigenze del consumatore, che è sempre meglio prendere in considerazione e sviluppare in comunicazione.

Veniamo alla sostenibilità, il secondo spettro che s’aggira nelle campagne pubblicitarie sui social, in tv, sui quotidiani, on line e di carta. 

Tariq Fancy, ex dirigente del fondo americano BlackRock (blackrock.com) – il più grande fondo d’investimenti del mondo – in un’intervista rilasciata a valori.it ha detto: “Lavorare sugli investimenti sostenibili significa guardare in questo senso l’intero processo: tutti gli 8.700 miliardi di dollari di asset in gestione (di BlackRock, ndr). Significa inoltre creare prodotti specifici a basso impatto. Io ho lavorato sui due aspetti e posso dire, sinceramente, che in entrambi i casi non abbiamo creato alcun valore sociale misurabile.” 

E quando gli è stato chiesto il perché, ha risposto: “Vede, con i prodotti sostenibili le persone si sentono a posto con la coscienza, perché pensano che i loro capitali e risparmi siano investiti su cose che loro hanno a cuore. La realtà è che le aziende non fanno business green perché è utile per il Pianeta: lo fanno quando esso è utile per generare profitti sul breve termine. 

Tutti agiscono secondo precisi imperativi economici: il paradigma è sempre lo stesso. Esistono ancora numerosi business che non ci piacciono, ma che restano redditizi per molte aziende. È così per il lavoro da schiavi nella catena di approvvigionamento di una casa di moda ed è così per le emissioni di CO2 di un’industria.” 

Se dalla grande finanza, atterriamo nella realtà del modo di produrre delle società di servizi o di prodotti con i quali abbiamo frequenti contatti, perché è da loro che acquistiamo i servizi e i prodotti di tutti i giorni, non possiamo non prendere atto che il problema è esattamente lo stesso. 

E allora, perché nascondersi dietro la parola “sostenibilità” che allo stato non è un fatto, ma solo un’intenzione, di là da venire, cioè che potrà succedere solo quando sarà più profittevole del vecchio modo di produrre?

“L’energia elettrica è nella maggior parte dei casi ancora prodotta grazie ai combustibili fossili.”

Prendiamo il mito dell’auto elettrica come totem della green economy. L’energia elettrica è nella maggior parte dei casi ancora prodotta grazie ai combustibili fossili. Senza contare che il litio delle batterie da ricaricare presenta problematiche ambientali. Su modo.volkswagen.it si può leggere: “Le inchieste sull’estrazione del litio nelle saline sono all’ordine del giorno. In alcune aree gli abitanti lamentano un aumento della siccità, che mette a dura prova gli allevamenti di bestiame o fa seccare la vegetazione. Per gli esperti non è ancora chiaro se la siccità prolungata sia effettivamente collegata, e in quale misura, all’estrazione di litio.” Dunque, la grande casa automobilistica tedesca non nega le problematiche all’estrazione litio, che danno vita a proteste dei contadini e degli allevatori in Australia e in America Latina. Tanto che leggiamo: “Il Gruppo Volkswagen, BASF, Daimler e Fairphone tengono in grande considerazione le proprie responsabilità lungo l’intera catena di approvvigionamento, inclusa la due diligence per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani durante l’estrazione e la produzione delle materie prime. La “Responsible Lithium Partnership” vuole promuovere lo sviluppo sostenibile, ridurre i potenziali impatti negativi e rafforzare la tutela dei diritti umani.” 

Se cercavate un esempio di greenwashing,  neologismo anglofono col quale si definisce l’ambientalismo di facciata, eccolo servito, bell’è pronto per l’uso.

“Dunque, la grande casa automobilistica tedesca non nega le problematiche all’estrazione litio, che danno vita a proteste dei contadini e degli allevatori in Australia e in America Latina.”

Il fatto è che, come ci spiega Tariq Fancy: “Il sistema capitalista è basato sul risultato di breve termine. I manager sono obbligati legalmente a cercare di massimizzare i ritorni sugli investimenti. E finché non interverranno i governi con regole stringenti, non potrà cambiare nulla.”

D’altra parte, una tipica batteria agli ioni di litio è in grado di generare circa 3 Voltper cella, contro i 2,1 Volt della batteria al piombo o gli 1,5 Volt per celle zinco-carbone. Costa meno, scalda meno, ha più potenza, dura di più. Dal che si possono facilmente intuire i benefici effetti economici per gli azionisti, che però sono sempre destinati a prevalere sull’ambiente e sui i suoi abitanti. 

Se la transizione ecologica trova ostacoli per esempio con le batterie al litio che verranno utilizzate sempre di più, un altro componente fondamentale sia della transizione ecologica che digitale è fortemente critico.

Se state leggendo queste righe vuol dire che siete in possesso di un pc, di uno smartphone o di un tablet. Gli apparecchi digitali sono la prova tangibile dell’innovazione, di un futuro promettente e, soprattutto, alla portata di tutti. 

“Ecco allora che in Congo le milizie controllano i giacimenti e utilizzano manodopera minorile.” 

Per funzionare gli apparecchi digitali hanno bisogno del Coltan. Il coltan serve ad ottimizzare il consumo di energia nei chip di nuova generazione, portando un notevole risparmio energetico e a ottimizzare, quindi, la durata della batteria. 

Bello, no? 

Oltre tutto, l’estrazione del coltan, poi, non è granché difficoltosa, se non fosse per alcuni dettagli, chiamiamoli così, non proprio innovativi: bisogna avere il controllo militare del territorio e il possesso dei corpi di chi lavora nelle miniere di Coltan. Ecco allora che in Congo le milizie controllano i giacimenti e utilizzano manodopera minorile. Un rapporto di “Medici senza frontiere” spiega che molti di questi ‘schiavi’ muoiono di fatica e di diverse malattie che questo minerale può portare: compromissione di cuore, vasi sanguigni, cervello e cute; riduzione della produzione di cellule ematiche e danneggiamento dell’apparato digerente; aumento dei rischi del cancro; difetti genetici nella prole; malattie dell’apparato linfatico. 

Questi schiavi bambini sono molto simili ai “carusi”, quei ragazzini che all’inizio dello scorso secolo venivano “utilizzati” nelle miniere di zolfo, nella Sicilia profonda. 

“Questi schiavi bambini sono molto simili ai “carusi”, quei ragazzini che all’inizio dello scorso secolo venivano “utilizzati” nelle miniere di zolfo, nella Sicilia profonda.”  

La domanda è: tutto questo è davvero “sostenibile”?

Senza contare che i consumatori sono a tutti gli effetti cittadini, per tanto le persone avrebbero il diritto di essere considerate parte integrante dell’ambiente naturale e sociale in cui vivono, e quindi non subire l’inquinamento mentale prodotto da sotterfugi propagandistici. Insomma, la comunicazione dovrebbe essere sostenibile. 

Infatti, “finché non intervengono i governi con regole stringenti”, come dice  Tariq Fancy,  la sostenibilità è ancora un dibattito sociale, economico e politico che stimola la ricerca di un modello di sviluppo compatibile con la creazione del valore, la difesa dell’ambiente, la tutela della democrazia e quindi dei diritti delle persone.

“Prendiamo il mito dell’auto elettrica come totem della green economy.”

Quando se ne parla in pubblicità è forte il rischio di semplificazioni sbagliate. E ancora una volta si sfida, in modo sleale, l’intelligenza dei clienti delle aziende, dei consumatori di prodotti e servizi, vantando una sostenibilità che in effetti non c’è ancora. 

Bisognerebbe che si fosse meno pigri e dunque meno conformisti. Ci sono altri argomenti che possono sostenere il successo dei brand e la qualità dei loro prodotti e servizi, senza scomodare gli spettri di argomentazioni poco convincenti in partenza. Bisogna essere onesti e coraggiosi. Cioè, creativi. 

La creatività è il fantasma del palcoscenico della comunicazione italiana.

Roberto Calasso (1941-2021), nel suo “Bobi” (Adelphi) ci ricorda che a volte:“[…] Occorreva partire da zero. E subito scartare la qualifica di intellettuale, parola che, secondo Jules Renard, ha senso solo come aggettivo”.

Qui, dunque, mi permetterei un suggerimento sul senso delle parole: evitiamo sempre di rendere “italianità” e “sostenibilità” anche come aggettivi. E proporrei un procedimento: proviamo a parlare, per esempio, di sostenibilità, senza nominarla e capiremo se gli argomenti reggerebbero, senza doversi aggrappare alla ciambella di una figura retorica che altrimenti affogherebbe nella banalità del nulla. Vale a dire: parlare di fatti è meglio di enunciare intenzioni. Che, se ci pensate bene, è il talento dei bugiardi. Anche e soprattutto in pubblicità, terreno sul quale vale la regola che ci ricordava Emanuele Pirella (1940-2010): “La pubblicità deve dire la verità, solo la verità, tutt’altro che la verità”. Che è un altro modo per dire: mai mentire senza pudore, ritegno, rispetto per il lettore, l’ascoltatore, lo spettatore.

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Attualità

La rammendatrice del territorio.

Una conversazione con Patrizia Nicolini, sindaco di Sacrofano che si batte perché il suo Comune sia davvero un bene comune.

Sacrofano è un paese della Città Metropolitana di Roma. È il primo a nord di Roma Nord. È uno dei comuni che insistono nell’area compresa nel Parco di Veio che, con quasi 15 mila ettari, è una cintura verde che produce effetti mitiganti sul clima, ricca biodiversità e, nonostante gli assalti dell’urbanizzazione, continua ad avere un elevato e riconosciuto valore paesaggistico. Una risorsa, un volano straordinario di cultura ambientalista, di sapere biologico, una miniera di biodiversità, una risorsa per la green economy, ma anche di turismo consapevole, che potrebbe trovare posto nei processi di “transizione ecologica”, e dare impulso all’economia circolare di Sacrofano e dei comuni limitrofi. A Sacrofano c’è la sede dell’Ente che gestisce il Parco.

Ci sono due modi per arrivare a Sacrofano da Roma. Il primo è percorre la via Flaminia per 8 chilometri, fino al bivio con la Sacrofanese-Cassia. Lungo questa strada, che porta fino in paese, si attraversa Monte Caminetto, che è la frazione in cui vivono poco meno della metà dei cittadini del Comune. 

Il secondo modo per arrivare a Sacrofano è uscire dalla Flaminia verso Prima Porta e percorrere via di Valle Muricana, che corre quasi parallela alla Flaminia. In questo caso, sempre dopo 8 chilometri, si costeggia Borgo Pineto, frazione  dove risiedono molti dei cittadini del Comune. Insomma, gli 8300 cittadini del Comune di Sacrofano vivono in un contesto urbanistico sicuramente immerso nel verde, che tuttavia non favorisce la coesione sociale.

A Patrizia Nicolini, che guida la Giunta del Comune di Sacrofano chiedo: 

Qual è la composizione sociale del Comune?

I cittadini che qui sono nati e cresciuti da generazioni sono ormai poco meno di un terzo della popolazione. La maggior parte, sono venuti soprattutto da Roma. Ma verso Roma continuano a recarsi per lavoro, con quella forma di pendolarismo molto comune nella Città Metropolitana.

Quali sono i motivi di queste migrazioni in provincia?

Il ceto medio, indebolito dal susseguirsi delle cicliche crisi economiche, ha cercato di difendere il proprio tenore di vita spostandosi dove la vita costasse di meno.

La conseguenza è stata la svendita di terreni agricoli per trasformarli in aree edificabili, col risultato di incrementare il consumo del suolo da un lato e l’impoverimento degli investimenti in agricoltura, dall’altro.

Questi fenomeni sono stati molto frequenti quasi ovunque nelle province delle grandi città. Non poteva che essere così anche in provincia di Roma. 

Questo potrebbe voler dire che i nuovi arrivati non sentono questo territorio come luogo che appartenga loro.

In effetti, se prendiamo per esempio Monte Caminetto, dove vivono la maggior parte dei cittadini, essi hanno un rapporto col Comune solo per via di adempimenti burocratici, per il resto la loro vita si svolge durante l’arco della giornata a Roma, vicino ai luoghi in cui lavorano fanno la spesa, lo shopping, vanno al bar o al cinema. 

Non socializzano con il resto del territorio?

Non è mai corretto generalizzare, tuttavia credo che nella maggior parte dei casi ognuno socializzi con la propria cerchia di amici, famigliari o conoscenti, che durante il fine settimana invita a casa. Sono belle case con giardino, lontano dal caos urbano di Roma.

Ma lontano anche dal territorio del Comune di Sacrofano.

Sì, questo è uno dei nostri problemi. 

E Borgo Pineto?

Anche loro a volte si sentono distanti. Magari più per gioco che sul serio, hanno fantasie “secessioniste”. Ma comunque, sia gli uni che gli altri esprimono, a loro, modo, un’esigenza che stiamo affrontando, che si riassume in una domanda che ci facciamo spesso: qual è il modo migliore per favorire la coesione sociale dei cittadini di questo Comune? Perché in definitiva è questo il nostro compito come amministratori.

Qual è il vero problema?

La tendenza a chiudersi. E quindi a generare diffidenze, che ostacolano una sana circolazione d’idee per affrontare senza reticenze problemi, esigenze, desideri. Senza dialogo non c’è un discorso pubblico condiviso. Ma non c’è neppure disponibilità a impegnarsi perché le cose migliorino. La mia Giunta sente forte compito di rimuovere questi ostacoli.

Ai “nuovi arrivati” da Roma, si aggiunge una robusta presenza di cittadini stranieri. Su una popolazione di 8.300 abitanti, oltre 120 cittadini provenienti da paesi della Ue e circa 300 da paesi extraeuropei o comunque non ancora entrati a pieno titolo nella Ue, sono una percentuale di tutto rispetto, si aggira a poco meno del 20 per cento.

La rilevanza di queste presenze sul territorio si può misurare tra gli alunni delle nostre scuole. Le loro iscrizioni hanno mantenuto alta la popolazione scolastica e di conseguenza il personale insegnante e non insegnante. C’è anche da dire che molti di questi cittadini sono dediti alla manutenzione delle ville che costeggiano le due arterie che portano in paese. Sono giardinieri, idraulici, elettricisti, muratori che vengono ingaggiati dai residenti per piccoli lavori. Le case di campagna sono belle, ma richiedono sempre molta cura.

Torniamo alla questione della coesione sociale. In altre occasioni, ho avuto modo di ricordare la teoria del rammendo della città esposta da Renzo Piano. Traslando dall’architettura urbana al contesto sociale, pur facendo i conti con l’urbanistica che ha seguito percorsi non sempre previsti né regolamentati, qual è la chiave che può aprire una prospettiva di coesione in questo comune?

Intanto vorrei dire cos’è per me la coesione sociale. È la capacità di mettere in rete le migliori energie: noi non abbiamo insediamenti produttivi che possano far da traino a un aumento del benessere economico del territorio. E poi c’è l’annosa questione della penuria di risorse finanziarie destinate ai Comuni italiani, che mette in grande difficoltà i servizi ai cittadini. Tuttavia vanno messe insieme le migliori qualità possibili per rendere attrattivo il nostro Comune e fare sistema per stimolare le migliori energie che i cittadini possono mettere in gioco a favore della comunità in cui vivono. 

Quali sono queste risorse che le energie dei cittadini possono rendere profittevoli?

La prima è che ognuno deve sentirsi il portatore sano di una buona reputazione.  Il passato rimanga al suo posto, che è appunto il passato. D’altronde, qui non si vive male. Ma bisogna che tutti contribuiscano a vivere bene. Il presente va sostenuto: qui ci sono ancora buoni prodotti della terra che vengono commercializzati sia dai piccoli negozi che dalla Gdo. Ci sono orti, uliveti, si alleva bestiame, ci sono maneggi e scuderie. Non si registrano livelli nocivi di inquinamento. Non si registrano pericoli. Anche la pandemia qui è stata affrontata con serena disciplina e in più di un’occasione con spontanea solidarietà. Faccio notare, per esempio, che il territorio è cablato e in molte aree ormai c’è la fibra ottica. Un’ottima notizia non solo per chi voglia svolgere da qui un’attività in “smart working”, ma anche per chi svolge attività intellettuali, professioni artistiche. Il terreno, dunque, è fertile non solo per la coltivazione, ma anche per fare impresa legata alla produzione del biologico, dell’accoglienza alberghiera, della ristorazione di qualità, dell’artigianato, degli sport all’aria aperta. Mi piacerebbe, per esempio, che un giorno tutti coloro che coltivano ulivi si consorziassero per produrre un olio autoctono. 

Lei ripone molta fiducia nei cittadini. 

Ricambio quella che hanno avuto in me e nella Giunta che guido. Ma per il ruolo che rappresento – e per il mio modo di vedere l’impegno pubblico – sento il dovere di avere più fiducia io in loro di quanto loro ne debbano avere in me. D’altronde, la fiducia nel governo della cosa pubblica è stata l’obiettivo contro cui si sono rivolti i cannoneggiamenti della propaganda secondo cui “privato” sempre è meglio di “pubblico”. Una superstizione dura da confutare.

Quale leva può davvero far progredire Sacrofano?

È la cultura. In settembre inauguriamo la biblioteca comunale, nella piazza centrale di Sacrofano. È un evento importante, ma soprattutto l’avvio di un processo irreversibile di coesione sociale.  In questi mesi abbiamo portato libri in giro per i vari luoghi del nostro comune, grazie alla collaborazione di una associazione che diffonde la lettura attraverso la distribuzione gratuita di libri di tutti i generi letterari.  È stata una specie di “campagna di promozione” diffusa sul territorio propedeutica alla prossima apertura della biblioteca comunale. 

I lavori di riuso di una struttura preesistente trasformata nella biblioteca comunale.

Una biblioteca comunale al centro del paese. Sembra un miraggio.

Invece è un fatto concreto. Abbiamo vinto un bando regionale, grazie al quale abbiamo riqualificato una costruzione preesistente, e di conseguenza riqualificato una piazza, il centro del paese, perché la biblioteca sia la biblioteca di tutto il territorio comunale, di Monte Caminetto, e di Borgo Pineto, e dell’Antico Borgo Medievale, e di Sacrofano paese e di tutte le zone e di tutti i cittadini, anche dei comuni vicini. La biblioteca dovrà presto diventare un motore della coesione, della creatività, capace di stimolare idee e buone pratiche. Grazie alla biblioteca, Sacrofano deve diventare presto un paese per giovani, della loro forza innovatrice. Per me la cultura non è pura contemplazione passiva, ma fucina di nuove idee. Idee capaci di contaminare il desiderio di coesione, di diffondere consapevolezza, di spingere il senso della cittadinanza e dei suoi diritti, ma anche capace di stimolare nuove imprenditorialità.

Mi viene da pensare che bisognerebbe riscoprire l’origine dalla parola Comune. Che non è solo un erogatore di servizi, di cui comunque i cittadini hanno il sacrosanto diritto. 

Sì, il Comune è un’istituzione locale, ma ha un compito che supera i suoi confini territoriali: ogni cittadino è un mondo, al quale partecipare, nel quale tutti gli sforzi devono tendere al bene di ciascuno e di tutti. Il Comune deve essere un bene comune. 

L’idea di Comune è una prospettiva, una visione, uno stile di lavoro, una prassi comune, appunto. 

Una prassi comune, per fare sistema, per mettere in rete tutte le energie, per fare della coesione un fatto concreto, capace di rammendare il territorio. Il sapere è indispensabile, perché è il propellente dei cambiamenti. Il sapere è l’obiettivo della cultura, di cui i libri sono strumenti indispensabili e la nostra biblioteca dovrà diventare la cassetta degli attrezzi della coesione sociale.

I lavori interni alla struttura che ospiterà la biblioteca comunale. L’inaugurazione è prevista in settembre 2021.

Patrizia Nicolini è una donna piena di energie e passione per il ruolo che svolge. Che non è un compito facile: fare il Sindaco è la più difficile delle carriere pubbliche nel nostro Paese. Ma questa miscela tra pragmatismo e visione prospettica è molto interessante. E promettente, una bella sfida contro la rassegnazione, la sfiducia, il conformismo.

Con Patrizia Nicolini, si conclude la ”trilogia della coesione”, iniziata con una conversazione con Giulia Fossà, impegnata in “Capalbio Estate”, che trovate sotto il titolo “Una maremma anomala”; e proseguita con Carmela Lalli, Assessora alla Cultura del IX Municipio di Roma, che trovate intitolata “L’archeologa della cultura”, tutte già qui pubblicate. 

La “trilogia della coesione” è stata pubblicata su grandimagazziniculturali.it

Per me è stato un viaggio con chi sta facendo cose utili per le rispettive comunità. Con competenze diverse, e specifiche sensibilità, ma con lo stesso spirito e la stessa determinazione di chi vuole imporre alla realtà un altro ritmo, promuovere altre cose da fare. Fossà, Lalli e Nicolini sono donne. Capaci, risolute, caparbie.  Il cui impegno, le cui teorie e le rispettive pratiche dovevano essere raccontati.

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Addio a Stefano De Filippi.

Addio a Stefano De Filippi, Art director.
Un pensiero dolce per Rebecca, sua figlia. E per Flavia, la madre di sua figlia.

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A Roma c’è un’archeologa della cultura.

Può la cultura rammendare le lacerazioni del tessuto sociale? 

Una conversazione con Carmela Lalli del IX Municipio di Roma.

Carmela Lalli, archeologa tardoantica e medievale, è assessore alla Cultura del IX Municipio del Comune di Roma. La capitale è suddivisa in quindici municipi, il IX comprende una popolazione di oltre 183mila abitanti. Più di Rieti, Viterbo, Frosinone messe insieme, quasi un terzo in più del solo comune di Latina, tanto per rimanere nei confini della regione Lazio.  Con oltre mille abitanti per chilometro quadrato, il IX Municipio comprende quattro quartieri, dieci zone e sei frazioni. 

Assessore Lalli, come si fa a pianificare una coerente ed efficace politica culturale in un territorio così esteso e frastagliato da differenze urbanistiche, nonché socioculturali?

Bella domanda. È la sfida cui sono stata chiamata a raccogliere tre anni e mezzo fa, quando mi hanno offerto l’Assessorato dedicato alla scuola e alla cultura. 

Forse ci voleva proprio un’archeologa per scavare tra mille problemi e difficoltà e rinvenire preziose soluzioni.

È una metafora divertente, tuttavia non così lontana dalla realtà. Risalire all’origine di molti problemi e tentare di dare una soluzione è il mio pane quotidiano, ormai.

In tutto questo vasto territorio, ci sono solo due multisala, due biblioteche comunali, alcuni musei all’EUR, scuole medie e superiori, non in tutti i quartieri del municipio.

Diciamo che questi sono alcuni degli strumenti che, se messi in rete, possono essere un’infrastruttura culturale importante. Certo è altrettanto importante che un sentimento di coesione sociale faccia dialogare tra loro i comitati di quartiere e le associazioni culturali con le biblioteche e le scuole, in modo che emergano energie capaci di dare gambe non solo a eventi, ma a vere e proprie buone pratiche di diffusione capillare di esperienze culturali. L’obiettivo è portare cultura dove non c’è, in modo da arricchire la qualità della vita dei cittadini ovunque essi vivano. 

In compenso nel municipio ci sono tre grandi centri commerciali più un famoso outlet. La Grande distribuzione fornisce più aggregazione della cultura?

È una tendenza che attraversa tutte le grandi città, non solo italiane. 

Fa un po’ impressione il successo di questi “non luoghi” in una città come Roma, un luogo pieno di storia, di verde, di bello. 

Tutti gli amministratori pubblici, che abbiano chiaro il loro ruolo di facilitatori del buon vivere dei cittadini, sanno che il tempo libero dal lavoro esclusivamente dedicato agli acquisti non è un modello sano. D’altronde la pandemia, che ha costretto a chiudere per un certo lasso di tempo i centri commerciali, ha messo in luce che il consumo non può essere un elemento così determinante, direi totalizzante, della vita dei singoli. 

Il fatto è che, a mio giudizio, la cultura crea socialità. Anche quando uno si isola per leggere un libro, in realtà entra in contatto con un argomento, una storia che lo collega alla collettività. L’acquisto, al contrario, è un atto peculiare, cercare un buon affare è di per sé un gesto individualista, quel volerlo a tutti i costi solo per sé costringe all’egoismo, e poi all’esibizione, a quel “io ce l’ho prima di te”  se non addirittura “io me lo posso permettere e tu no”, che crea una competizione che si basa non sulle capacità umane, ma sulla elementare capacità di spesa, che divide le persone per censo e quindi nega loro di fatto la cittadinanza, attraverso l’uguaglianza, che è uno dei cardini del patto sociale sancito della Costituzione della Repubblica.

Temo abbia ragione. Spesso l’esibizionismo della merce è un fattore che scatena episodi di bullismo nelle nostre scuole. Quando la competizione del sapere diventa invece quella dell’avere si incrina la stessa funzione sociale dell’istruzione pubblica.

Parlando di urbanistica, Renzo Piano, anni fa, ha usato la metafora del rammendo e della rigenerazione urbana delle periferie.  

Mi piace questo paragone, l’idea del rammendo del tessuto sociale è quasi un’allegoria del nostro lavoro. Rammendare la coesione sociale attraverso l’ago della cultura, per ricucire gli strappi subiti dai diritti dei cittadini, per rigenerare la loro qualità della vita, per rendere non solo vivibile il loro abitare nel quartiere, ma anche godibile la loro socialità. Ecco quello che dovremmo impegnarci a fare nel concreto.

Per esempio?

Recentemente abbiamo varato un progetto che abbiamo intitolato “Vitamine per le menti”. Con una serie d’iniziative, incontri, dibattiti e presentazioni, vogliamo far dialogare la scuola e gli studenti con la società civile e la società civile con la scuola, coinvolgendo le biblioteche comunali, – che a Roma sono veri e propri avamposti di cultura sui territori-, i musei, le associazioni culturali, le onlus.

Come?

Sul modello di “Dedicato alle donne” che abbiamo lanciato lo scorso mese di marzo in partnership con Nove Onlus. In piena pandemia, abbiamo avviato -per tutto il mese- webinar, per un totale di 24 appuntamenti, che hanno coinvolto donne e uomini della cultura, del cinema, del teatro, della musica, delle professioni e delle istituzioni che, a partire dallo specifico della condizione della donna nella nostra società, hanno raggiunto tematiche geopolitiche, scientifiche, filosofiche, dal diritto alla stessa funzione della democrazia come luogo in cui si confrontano le contraddizioni sociali. 

Avete registrato un riscontro positivo?

Un bilancio più che positivo, direi. “Dedicato alle donne”si svolgeva la mattina, e vi hanno partecipato gli studenti delle scuole del IX Municipio che erano in “Dad”, didattica a distanza. Nel pomeriggio, si svolgevano incontri con esperti e cittadini. Sono stati appuntamenti molto seguiti. Ricordo con emozione il confronto tra gli studenti italiani e le studentesse afghane, via web in diretta da Kabul, grazie alla collaborazione di Nove, onlus italiana che opera in Afghanistan. C’è stata una grande attenzione da parte delle ragazze e dei ragazzi romani e un loro coinvolgimento straordinario. È stato il miglior viatico possibile per disegnare e varare il progetto “Vitamine per le menti”. Nel quale verrà ancora coinvolta Nove, accanto ad altre onlus, alle associazioni culturali, ai comitati di quartiere e a istituzioni culturali pubbliche. Mi sembra un nuovo modello d’intervento che possa dare risultati promettenti.

Che progetti avete in atto quest’estate?

Grazie alla fattiva collaborazione con alcuni dirigenti scolastici, abbiamo aperto le scuole al territorio. Per tutta l’estate, in ottemperanza alle norme anti-Covid, le scuole rimarranno aperte e i cittadini potranno usufruire degli spazi per praticare sport e attività fisica. Abbiano stipulato convenzioni con associazioni sportive che forniranno corsi a prezzi accessibili a tutti. 

Il sogno di Tullio De Mauro, che immaginava le scuole aperte la mattina per gli studenti e il pomeriggio e la sera per gli adulti che abitavano nei dintorni, in modo che la scuola continuasse a fornire a tempo pieno la sua funzione di emancipazione culturale e coesione sociale. Quale sarebbe il sogno dell’Assessore da realizzare  durante il mandato?

Approfitto per dirlo a tutti. Tra i quartieri di Roma che fanno parte del IX Municipio c’è Trigoria. Come i romani sanno, a Trigoria si allena la Roma, una delle due squadre di calcio della capitale. Mi piacerebbe che la società sportiva creasse insieme a noi le condizioni per la diffusione dell’attività fisica e sportiva sul territorio, a disposizione dei cittadini di ogni età. 

Una specie di “responsabilità sociale” della Roma verso le cittadine e i cittadini che condividono lo stesso territorio.  Sono a disposizione dei dirigenti della Roma, se vogliono condividere questo sogno e farlo diventare un progetto concreto.

 È una bella idea. Spero si riesca a fare gol.

Secondo me sarebbero loro a far un bel gol a tutto vantaggio della collettività, oltre il perimetro dei fans dei loro giocatori e della passione dei loro tifosi. 

Non c’è dubbio che anche lo sport abbia bisogno di cimentarsi con la crescita culturale, il calcio soprattutto.  D’altra parte, mettere in rete tutte le risorse disponibili al rammendo del tessuto sociale e alla rigenerazione di una buona vita collettiva sembra un progetto ambizioso. Ma le premesse ci sono. Spesso ci lamentiamo della mediocrità della classe dirigente di questo paese e della povertà di idee e di spirito di iniziativa degli amministratori pubblici. Non è il caso di Carmela Lalli, archeologa della cultura in uno dei più popolosi municipi della Capitale.  

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L’anomalia Capalbio.

[pubblicato su grandimagazziniculturali.it]

Giulia Fossà è un’attrice, una giornalista, una ricercata insegnante di Pilates. Per il secondo anno consecutivo è impegnata negli eventi culturali di Capalbio Estate. Le chiedo subito:

Ma dov’è finito tutto quel glamour che incombeva su Capalbio?
Semai ci fosse stato, credo sia finito con la pandemia.

Non c’è mai stato?
Non nel senso che mi pare di intuire dalla tua domanda. È stato molto costruito dalle paparazzate che hanno alimentato un certo modo di fare giornalismo.

Beh, però Capalbio d’estate era sempre piena di facce note.
Guarda, Capalbio e il suo territorio sono popolati da persone e storie diverse. Innanzitutto ci sono gli abitanti, dediti all’agricoltura e alla vinificazione. E anche all’allevamento del pesce. Come pure alle esperienze di creatività artigianale legate alla pratica del riuso. Poi ci sono allevatori, soprattutto di cavalli. Ci sono gli eredi di casati nobiliari, che qui hanno sempre avuto terreni e casali. Cui aggiungere persone che, come me, hanno qui una seconda casa, e vengono durante i fine settimana di tutto l’anno. Nei mesi estivi, soprattutto luglio e agosto, ecco l’arrivo di vacanzieri, che sono accolti sulle spiagge e nei bar e ristoranti. Dunque, una composizione eterogenea, che non può essere semplicemente descritta con lo stereotipo del VIP.

A qualcuno, tuttavia, ha fatto comodo questa semplificazione, come la definisci tu.
Né più né meno che in qualsiasi luogo di vacanza, di albergo o ristorante del mondo. Le foto tra calciatori, attori, cantanti e i gestori dei locali sono incorniciate e affisse nei ristoranti in ogni dove.

Rimane il fatto che da un paio d’anni invece che party e feste esclusive, Capalbio fa parlare di sé per eventi culturali.
È vero e se fosse davvero così sarebbe un bene, per tutti.

In che senso?
Sulla spinta delle difficoltà di movimento sancito dal lockdown, che hanno ostacolato gli spostamenti verso Capalbio dalle altre regioni, impedendo di fatto di frequentare la propria seconda casa, cui aggiungere lo stop all’accoglienza turistica e il turismo in generale, la pandemia ha fatto soffrire questi territori. L’idea di promuovere eventi culturali mi è sembrata una felice intuizione. Non solo risponde alla necessità di ripresa delle attività economiche, ma se ben valorizzata e sostenuta, Capalbio Estate può diventare un nuovo modo di vivere il rapporto con queste terre. Direi un modo circolare: dalla reputazione alle capacità, dalle capacità alle buone pratiche, dalle buone pratiche ai buoni risultati economici.

Che cos’è Capalbio Estate?
Quest’anno è la seconda edizione di un cartellone di eventi culturali, diffusi sul territorio, che mette insieme musica, cinema, letteratura, arte, performance artistiche e anche il teatro delle marionette. Sono ancora i primi passi della Fondazione Capalbio che organizza e gestisce questi eventi, ma mi pare la direzione sia quella giusta.

Come sei stata coinvolta?
Lo scorso anno mi è stato chiesto di presentare alcune serate. Ricordo con piacere quella dedicata a Dante, ma anche quella in cui si è presentata l’opera di Raffaello.

In qualche casale?
No, in piazza, all’aperto. Qui è il bello. Tutti insieme – col rispetto delle normative anti-Covid – c’erano persone provenienti dalle diverse componenti sociali che, come dicevo all’inizio, fanno parte della variegata comunità di questi territori. Quelli che qui producono, quelli che qui lavorano, quelli che vivono stabilmente e quelli che hanno la seconda casa e poi i villeggianti, che qui vengono a fare il bagno, le passeggiate nel verde, che assaggiano la cucina locale.

Quest’anno la Maremma è anomala. Una conversazione con Giulia Fossà

In uno dei tuoi interventi, quest’anno hai detto: ”La coesione sociale è ciò che ci tiene insieme e allo stesso tempo ci stimola a pensare, creare, a guardare avanti e lontano. C’è una parola che mette insieme tutto questo: si chiama cultura.” Un bel modo di vedere le cose.
Grazie. Ma credo sia lo spirito col quale la Fondazione abbia dato vita a questa esperienza, uno spirito al quale aderisco con convinzione. Credo possa contribuire a cambiare il senso della vacanza, non più tempo consumato nel non voler pensare a niente, ma tempo pieno di stimoli e curiosità, tempo da riempire con l’armonia dei luoghi, dei sapori e dei suoni, dello stare insieme, per condividere il bello, oltre che il buono.

Qual è il tuo prossimo impegno a Capalbio Estate?
Il prossimo 11 luglio, a Borgo Carige, frazione di Capalbio, introduco un bel concerto di arie celebri, con i giovani artisti dello “Young Artist Program” del progetto “Fabbrica”, istituito dal Teatro dell’Opera di Roma. Si esibiranno giovani talenti, vincitori di una borsa di studio, e verranno proiettate immagini sulla facciata del sagrato della chiesa. L’idea mi è piaciuta subito.

Insomma, contaminazione culturale e coesione sociale, possono rilanciare il nostro paese, a partire da esperienze come questa cui partecipi?
Perché no? Accanto alle transizioni ecologica e digitale, forse abbiamo bisogno di una robusta transizione culturale. “La cultura è conoscere i fatti, l’intelligenza è comprenderli, saperli interpretare, capirne la portata, il significato e chiaramente imparare la lezione che alcuni eventi ci insegnano” ha scritto Antonio. Gramsci. Che aggiungeva: “L’intelligenza si nutre di cultura, e le due cose combinate rendono possibile il discernere fra verità, bugie verosimili e bugie.”

Sembra scritto oggi.
Infatti. Ma queste sono le parole così attuali che lasciano senza fiato: “La cultura deve insegnare che ogni azione porta con sé una conseguenza e l’intelligenza deve capire in tempo quale sarà, se intraprendere o meno quella data azione e eventualmente prendere le contromisure. La differenza fra cultura e intelligenza è la medesima che c’è fra imparare e capire. La cultura è solidarietà, è tutela dell’ambiente, la cultura è pace.

Tutto questo è possibile a Capalbio?
Se non cominciamo a farlo, non lo sapremo mai.

Anni fa, le cronache si sono occupate della cosiddetta “onda anomala”, che a una certa ora del primo pomeriggio invadeva le prime file di ombrelloni all’”Ultima spiaggia”, lo stabilimento balneare più famoso di Capalbio. Quest’anno sembrerebbe essere la cultura l’anomalia che inonda le vacanze in Maremma.

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