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Giornali che non vendono, ma sono finanziati col denaro pubblico; giornalisti che stanno tutto il giorno in tv a fare opinione invece che informazione. È chiaro perché in Italia la stampa ha smesso di essere un diritto?

“Fra il 2003 e il 2023, con un intervallo di otto anni durante i quali non ha percepito denari dallo Stato, il quotidiano alla cui direzione si sono alternati Vittorio Feltri, Alessandro Sallusti, Maurizio Belpietro, Pietro Senaldi e Mario Sechi ha incassato, secondo le cifre presenti nella banca dati del dipartimento per l’Informazione e l’editoria della presidenza del Consiglio, 57.103.260 euro.

Niente male, no? Il bello è che i denari con cui si finanzia «Libero» arrivano dal canone Rai.

Una legge del secondo governo di Giuseppe Conte, quello con il Partito democratico al posto della Lega, stabilisce che 110 milioni di euro l’anno dell’abbonamento alla tv di Stato vanno a finire in un «Fondo per il pluralismo dell’informazione».

Dal quale si attinge per pagare i contributi ad alcune decine di giornali, fra cui appunto «Libero» e altri organi di stampa. Compreso ciò che rimane dei quotidiani politici come «il manifesto» o di partito qual è il «Secolo d’Italia», megafono dei Fratelli d’Italia, destinatario di un milioncino l’anno.

Meccanismo davvero curioso.

Ai cittadini viene imposto di pagare il canone con la bolletta della luce. Però con la stessa bolletta finanziano pure i giornali politici. A loro insaputa.” (da “Io so’ io: Come i politici sono tornati a essere intoccabili” di Sergio Rizzo).

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“Come molte volte nella storia, sono le nuove generazioni a stabilire la bussola morale dell’azione politica e della resistenza a questa guerra genocida illegale e vergognosa contro Gaza”.

Pubblico questa interessante intervista a Paulo Tavares, di Marialuisa Palumbo, apparsa artribune.com il 13 maggio.

Qual è il senso architettonico degli accampamenti pro-Palestina alla Columbia?

Vincitore, con Gabriela de Matos, del Leone d’oro per il Padiglione Brasile alla Biennale Architettura 2023, l’architetto ed educatore Paulo Tavares prende la parola sulla mobilitazione pro-Palestina promossa nel campus della Columbia University, l’ateneo in cui insegna.

Punto di partenza di questa conversazione a più voci sono le proteste degli studenti che, dopo mesi di mobilitazione in solidarietà con la Palestina, a partire dal campus della Columbia University, nelle ultime settimane si sono accampati sui prati di oltre 100 università nel mondo.

Negli Stati Uniti, ma anche Canada, Australia ed Europa: ovunque chiedono ai governi di interrompere gli aiuti militari a Israele e alle università stesse di fermare i programmi di collaborazione con Israele, in particolare nel campo della ricerca militare. La sera del 31 aprile, su richiesta della Presidente Nemat Shafik, la polizia di New York ha fatto irruzione nel campus di Columbia sgombrando l’accampamento e l’edificio occupato, e arrestando decine di studenti.

Sgombri, manifestazioni e arresti si sono verificati anche in altre università. Eppure, in questo momento storico segnato dal buio di un genocidio compiuto in diretta social, e da un massiccio ritorno agli investimenti sulle armi, queste proteste accendono una luce di speranza.

  • La mobilitazione pro-Palestina nel campus della Columbia University
  • Come nel 1968, quando proprio la Columbia era stata uno dei centri nevralgici della protesta contro la guerra in Vietnam, quanto avviene ci racconta di una generazione capace di mobilitarsi contro una guerra che sta massacrando una popolazione civile, radendo al suolo case, ospedali, scuole, università, sino a non lasciare in piedi nulla che possa anche lontanamente assomigliare a un riparo o a un’area (e una vita) priva di macerie.
  • Gli accampamenti ci raccontano anche, al di là dell’orrore per le violenze, di una solidarietà verso la causa palestinese e cioè verso quella che, da molti punti di vista, appare come una guerra di liberazione contro una forma di occupazione.
  • L’occupazione di una terra che avrebbero potuto diventare uno stato libero, multilinguistico e multireligioso e che, invece, qualcuno ha deciso di segregare, dividere, svuotare dei suoi abitanti.

Paulo Tavares

  • Parola a Paulo Tavares, Leone d’oro alla Biennale Architettura 2023

Per cercare di mettere in luce il legame tra gli accampamenti pro-Palestina e il pensiero critico che da decenni denuncia il carattere coloniale e violento della modernità e la sua eredità nel presente, abbiamo domandato ad alcuni protagonisti della teoria e della pratica architettonica, nonché educatori in vario modo coinvolti nella didattica dell’architettura a Columbia, in che modo i loro insegnamenti intersecano questi temi.

Il nostro primo interlocutore è Paulo Tavares, architetto, educatore e, insieme a Gabriela de Matos, vincitore del Leone d’oro all’ultima Biennale di Venezia con la curatela del padiglione del Brasile denominato Terra/Earth.

  • La mia domanda di fondo riguarda l’intersezione tra il tuo seminario alla Columbia, intitolato “Reparation Architecture”, e le proteste degli studenti: vedo una profonda correlazione tra il quadro critico postcoloniale del tuo lavoro e le proteste in corso. Poiché questo legame non è affatto evidente a coloro che accusano le proteste di antisemitismo, puoi spiegarlo?

  • Innanzitutto è importante dire che le proteste degli studenti e, più specificamente, l’Accampamento di Solidarietà per Gaza che è stato allestito alla Columbia University e ha dato il via agli altri accampamenti negli Stati Uniti e oltre, è fondamentalmente un’iniziativa studentesca, un movimento organizzato e mantenuto dai giovani.
  • Dico questo non perché voglia allontanare il corso in Reparation Architecture dalle proteste, tutt’altro. Dopo l’azione della polizia contro i manifestanti abbiamo rilasciato una dichiarazione a sostegno dell’accampamento.
  • Ma perché è importante riconoscere che, come molte volte nella storia, sono le nuove generazioni a stabilire la bussola morale dell’azione politica e della resistenza a questa guerra genocida illegale e vergognosa contro Gaza.
  • Detto questo, le forme in cui l’accampamento incarna la richiesta di decolonizzazione e liberazione sono in vario modo legate ai contesti spaziali e alle questioni che affrontiamo nel quadro della Reparation Architecture.
  • Ovvero?
    Proprio l’occupazione coloniale della Palestina e il regime di apartheid imposto dallo Stato di Israele sui palestinesi sono un contesto importante per lo studio di come gli elementi spaziali e le infrastrutture operano come strumenti coloniali e di oppressione, come molti studiosi hanno dibattuto negli ultimi anni.
  • Molti dei territori e delle situazioni affrontate dagli studenti attraverso i loro progetti toccano questioni di memoria, dislocamento (displacement), colonizzazione ed esclusione spaziale che vediamo acutamente espresse nei territori palestinesi sotto occupazione.
  • Quindi, naturalmente, la protesta degli studenti ha avuto un impatto significativo nel nostro studio al GSAPP (Graduate School of Architecture, Planning and Preservation), perché il nostro gruppo era molto consapevole di come si verificano le ingiustizie nello spazio, ed è stato uno shock assistere all’uso sproporzionato delle forze di polizia per reprimere i loro colleghi. Per questo hanno organizzato una protesta durante le revisioni finali del GSAPP, affiggendo un grande poster nella scuola che invitava docenti e dirigenti a rompere il silenzio sul genocidio di Gaza.
  • Definisci la tua pratica come qualcosa che si colloca al confine tra architettura e advocacy: per analizzare ulteriormente il quadro critico del tuo lavoro, ti chiedo in difesa di chi si pone e perché?
    Il principio è che, se intendiamo la città come un diritto, se lo spazio, il territorio e l’ambiente sono diritti, allora dobbiamo concepire l’architettura e le pratiche spaziali come forme di difesa di tali diritti.
  • Noi lavoriamo principalmente con comunità soggette a forme di violenza statale o aziendale, che stanno subendo gravi violazioni dei diritti o che hanno difficoltà ad accedere ai diritti riconosciuti.
  • I diritti non sono l’unico strumento, né in molti casi il più efficace, per perseguire la giustizia socio-spaziale e ambientale.
  • Ad esempio, abbiamo visto più e più volte come principi come i diritti umani o il diritto umanitario possano essere capovolti e funzionare come dispositivi retorici e giuridici per consentire interventi militari e persino conferire legittimità alla barbarica violenza di Stato, come nel caso dell’attuale guerra a Gaza.
  • Cosa rivela questo conflitto?
    Gaza mette in luce non solo i difetti del discorso liberale delle potenze occidentali e dei media occidentali, ma anche come il sistema giudiziario internazionale sia inefficace, per non dire completamente sbilanciato a favore delle potenze occidentali.
  • Tuttavia i diritti possono anche essere mobilitati come strumenti potenti e importanti nella lotta per la giustizia. Ancora una volta Gaza dà l’esempio: gli attivisti per i diritti umani potevano prevedere che la presentazione da parte del Sudafrica di un ricorso contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia ai sensi della Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del Genocidio non avrebbe portato ad alcuna azione significativa.
  • Ciononostante, è servito come un gesto forte capace di riformulare la narrazione sulla guerra che ha dominato l’informazione internazionale e i discorsi politici, non solo della leadership israeliana, ma anche dei leader occidentali come negli Stati Uniti e in Germania.

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Scatta la repressione nelle università americane.

Hanno sospeso gli studenti del MIT e di Harvard, li hanno esclusi dalla laurea e sfrattati dagli alloggi del campus.


“Il livello di rischio che stiamo assumendo non è nulla in confronto a quello che stanno attraversando i palestinesi a Gaza”, ha detto uno studente laureato.

“I bambini vengono intenzionalmente affamati come strategia militare. Questa è una situazione estremamente urgente”, ha aggiunto. (Fonte: The Boston Globe).

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Dare lavoro in appalto e non controllare l’uso delle protezioni: è la formula dell’omicidio perfetto sul lavoro.

È la micidiale combinazione che nel pomeriggio di sabato 11 maggio ha portato alla morte il 33enne beneventano Giuseppe Carpinelli, precipitato per una quarantina di metri all’interno della torre 3 (120 metri di altezza) nel parco eolico di Salemi (Trapani), di proprietà di Erg Wind Energy.

Carpinelli era in straordinario, perché il normale orario va dal lunedì al venerdì, e la domanda è ovvia: cosa c’era di tanto urgente da fare, per impegnare in subappalto un’intera squadra della IVPC Service srl di Avellino? IVPC è l’acronimo di un guazzabuglio linguistico: Italia Vento Power Corporation, di proprietà di Oreste Vigorito (una passione per il calcio, come i Garrone: è presidente del Benevento).

Poco ancora si sa della dinamica ma, come scrive Alessia Candito su Repubblica, i vigili del fuoco che hanno recuperato il corpo straziato del lavoratore avrebbero scoperto che Giuseppe Carpinelli non indossava imbracatura, obbligatoria per i lavori in quota.

La magistratura è già al lavoro e ha sequestrato l’intero impianto.

Si tratta dell’ottava morte sul lavoro in Sicilia nel mese di maggio, la sesta in una settimana dopo la strage di Casteldaccia, la trentesima nella regione dall’inizio dell’anno.

#giuseppecarpinelli#mortidilavoro

Maggio 2024: 36 morti (sul lavoro 33; in itinere 3; media giorno 3).

(Courtesy by Piero Santonastaso/Morti di lavoro).

Anno 2024: 401 morti (sul lavoro 317; in itinere 84; media giorno 3)

55 Lombardia (37 sul lavoro – 18 in itinere)

45 Campania (34-11)

39 Emilia Romagna (31-8)

33 Veneto (24-9)

30 Sicilia (22-8)

29 Toscana (26-3)

24 Puglia (20-4)

23 Lazio (16-7)

21 Piemonte (17-4)

16 Abruzzo (13-3)

13 Calabria (10-3)

12 Sardegna (11-1)

11 Marche (9-2)

10 Liguria (8-2)

9 Estero (8-1)

8 Trentino (6-2)

7 Alto Adige (7-0)

5 Friuli V.G. (5-0), Umbria (5-0)

4 Valle d’Aosta (4-0)

3 Basilicata (3-0)

1 Molise (1-0).

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 95 morti (sul lavoro 75; in itinere 20; media giorno 3,2)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Lo strano ministro dell’Interno.

“Tanto per dirne una, è normale che un prefetto ricopra l’incarico di ministro dell’Interno?

La risposta è no. In una democrazia compiuta non è affatto normale.

Il prefetto rappresenta il governo centrale in un determinato territorio, dove sovrintende anche all’ordine pubblico, ed è alle dipendenze dirette del ministro dell’Interno.

Il quale lo nomina, ne decide la destinazione nonché il ruolo, e ne determina la carriera.

Non è un caso che i pochi prefetti ministri dell’Interno siano stati destinati a quel delicatissimo incarico da governi tecnici.

Il primo prefetto nominato al vertice del Viminale da un governo politico a tutto tondo è Matteo Piantedosi.

L’uomo che definisce «carico che ne dovesse residuare» gli esseri umani migranti cui è vietato sbarcare in un porto italiano e devono essere rispediti dall’altra parte del Mediterraneo.

E che per ciò che si è appena detto vive una situazione di conclamato conflitto d’interessi.

A testata multipla, per giunta.

Pure sua moglie Paola Berardino infatti è prefetto: nominata dall’ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, a sua volta prefetto, che un anno prima aveva anche nominato Piantedosi, capo di gabinetto del Viminale e suo futuro successore, prefetto di Roma.

Per questo incarico che riveste a Grosseto la funzionaria pubblica Paola Berardino oggi risponde al marito ministro. Inconcepibile.” (da “Io so’ io: Come i politici sono tornati a essere intoccabili” di Sergio Rizzo).

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Nasce un giornale per il citizen journalism nella città metropolitana di Roma: si chiama “La Nuova Sacrofano, giornale dei cambiamenti”.

Qualcuno scrisse tempo fa che è difficile individuare il nuovo mentre il cambiamento è in atto.

I cambiamenti si capiscono quando sono già avvenuti e permettono il confronto con ciò che è stato.

Se ciò fosse vero, anche soltanto in parte, questo giornale sarebbe poco utile, perché quello che sta cambiando sarà valutabile fra qualche tempo.

Però, a Sacrofano, le cose sono cambiate da qualche anno.

E allora, vorremmo essere in grado di raccontarle, di modo che la percezione dei cambiamenti sia di stimolo.

In “Le cento città”, un gustoso libricino di Goffredo Fofi (edizioni e/o, 2020), l’autore cita Carlo Levi (1902-1975) e la sua intuizione sulla caratteristica della provincia italiana, secondo la quale “l’Italia dell’immensa provincia pare a Levi popolare e aristocratica, non mai media e mediocre”. (Cfr. pag. 16).

Ecco vorremmo uno sguardo “pop e snob” su quello che succede e potrebbe succedere a una comunità, come quella di Sacrofano, che è in provincia della Capitale, ma che sente come propria una fisionomia produttiva, sociale e culturale molto peculiare.

Guglielmo Forges Davanzati, professore di economia politica all’Unisalento, in un recente articolo per La Gazzetta del Meridione, ha scritto: “Occorre potenziare la base industriale delle aree periferiche”.

Vorremmo dunque capire, insieme con i lettori, le modalità della catena del valore, capaci di stimolare quella vivacità che si è manifestata in questi anni e che pensiamo vada messa a sistema.

Insomma, c’è da fare, cioè raccogliere e raccontare.

Con lo spirito del “citizen journalism”, cioè del giornalismo partecipativo, in cui, come cittadini, diventiamo soggetti e non solamente fruitori delle notizie.

In questo senso, per quanto il nostro sforzo sarà concentrato sul territorio di Sacrofano, non ci pensiamo esclusivamente come un giornale locale.

La Nuova Sacrofano vuole raccontare il nostro specifico, perché è una parte della realtà non solo del paese Sacrofano, ma del Paese Italia. 

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La lunga marcia della lingua italiana.

“Va precisato che la storia dell’italiano è particolarmente turbolenta.

Almeno da quando Pietro Bembo, che nel Cinquecento scrisse le ‘Prose della volgar lingua’, scelse per la sua opera, in maniera abbastanza arbitraria – in base al suo gusto –, il fiorentino parlato dalle classi colte del Trecento; a lungo questo «volgare illustre» rimase appannaggio della sola produzione letteraria.

Non vorrò mica sostenere, con questo, che l’italiano è stato creato a tavolino?

Ebbene, di fatto, sí.

Nel 1861, con l’Unità d’Italia, si pose il problema di «fare gli italiani», come sentenziò Massimo d’Azeglio.

Tuttavia questa unificazione linguistica, basata su una lingua rimasta fino a quel momento quasi esclusivamente di natura alta, non si poté dire davvero realizzata fino agli anni Sessanta del ’900, quando l’italiano è diventato a tutti gli effetti la lingua degli italiani (e delle italiane, ovviamente).

Detto altrimenti, le grandi trasformazioni linguistiche, dovute all’uso vivo, si sono concentrate negli ultimi sessant’anni, da quando cioè l’italiano è da considerare la lingua parlata dalla popolazione” (da “Grammamanti: Immaginare futuri con le parole” di Vera Gheno).

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Il valore delle parole.

 “La scuola tradizionale ha insegnato come si deve dire una cosa.

La scuola democratica insegnerà come si può dire una cosa, in quale fantastico infinito universo di modi distinti di comunicare noi siamo proiettati nel momento in cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa.

Possiamo dire una cosa disegnando, cantando, mimandola, recitando, ammiccando, additando, e con parole; possiamo dirla in inglese, in cinese, in turco, in francese, in greco, in piemontese, in siciliano, in viterbese, romanesco, trasteverino, e in italiano; possiamo dirla con una sintassi semplice, per giustapposizione di proposizioni, o con una sintassi contorta e subordinante; con parole antiche o nuove, nobili o plebee, usate o specialistiche; possiamo dirla come uno scienziato o un poliziotto, un comiziante o un cronista, un gruppettaro o un curato di campagna; possiamo gridarla, scriverla a caratteri cubitali o in appunti frettolosi – possiamo dirla tacendo, purché abbiamo veramente voglia di dirla e purché ce la lascino dire.” (Tullio De Mauro, Il plurilinguismo nella società e nella scuola italiana, ne L’educazione linguistica democratica, pag. 84.)

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La terra di Sicilia si bagna di nuovo del sangue di un morto di lavoro.

A Salemi, in provincia di Trapani, un operaio di 33 anni precipita da una pala eolica, si schianta a terra e muore sul colpo. Dopo la strage di Caldaccia, di nuovo la Sicilia si bagna del sangue di un morto di lavoro.

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Per quale Europa siamo chiamati a votare?

“Lo scorso aprile, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, i tre grandi leader europeisti Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese, Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, ed Enrico Letta, ex Presidente del Consiglio ed ex segretario del Partito Democratico italiano, attualmente Presidente del Jacques Delors Institute, hanno pronunciato una serie di importanti discorsi istituzionali nei quali hanno preso finalmente atto della drammatica situazione di stallo dell’Ue e hanno esposto i loro piani di riforma.

I tre, che sono tra i principali protagonisti della costruzione europea, sono improvvisamente e sorprendentemente diventati anche i maggiori critici della Ue attuale, di questa Ue che dimostra una completa impotenza nel convulso scenario dei conflitti europei e in Medio Oriente; e di questa Ue sempre sull’orlo della crisi e della recessione economica.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin ha rivelato la debolezza strategica dell’Europa, la sua fragilità strutturale e la sua sudditanza rispetto all’economia e alla politica degli Stati Uniti, diventati il nuovo fornitore di gas della Ue”. (Enrico Grazzini, MicroMega+).

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Raccontare il dolore è una medicina buona.

“«Non nascondete il vostro dolore e affidatelo alle parole.

Il dolore che non parla sussurra al cuore affranto l’ordine di spezzarsi», scrive William Shakespeare nel Macbeth.

Il dolore parlato aiuta a stare meglio, come sa bene la psicanalisi.

Dare voce a ciò che si prova è un modo per tirare fuori da sé quello che ci angustia e ci appesantisce l’animo: ci permette di porci di fronte a esso, guardarlo negli occhi ed eventualmente superarlo.

Otis dà un consiglio molto semplice ad Adam: voltando le spalle alla persona in questione, forse troverebbe la forza di pronunciare quelle parole che sente incastrate dentro di sé.”

(da “Grammamanti: Immaginare futuri con le parole” di Vera Gheno).

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Venerdì 10 maggio 2024: siamo a 400 morti di lavoro.

Il dato peggiore, nel raffronto tra i due anni, è quello dell’Emilia Romagna, che balza da 23 a 39 vittime in 131 giorni, con un aumento che sfiora il 70% (69,5).

Tutto questo accade nel totale disinteresse del governo, che di fronte alla strage di lavoratori fa spallucce e si affida (quando se ne ricorda), a inutili dichiarazioni di maniera.

Dei 4 lavoratori che hanno allungato l’elenco delle vittime, due avevano 72 anni e due 55, ennesima conferma che sono gli ultracinquantenni i lavoratori più a rischio e che si lavora a oltranza, anche dopo l’età del riposo, perché i redditi da lavoro e da pensione sono sempre più miseri.

Silvano Brunini, 72 anni, ha trovato una morte orribile nell’allevamento di famiglia a Magnago (Milano).

Giovedì 9 maggio, a sera, è stato caricato da una mucca che tentava di separare dal suo vitello ed è finito a terra, dove la furia dell’animale gli ha provocato lo sfondamento della cassa toracica, con morte istantanea.

Un altro agricoltore 72enne, di cui per ora non conosciamo il nome, è morto a Montespertoli (Firenze).

Le prime notizie parlavano di un incidente con il trattore, ma i soccorritori arrivati nel campo hanno trovato solo il corpo senza vita dell’uomo e nessuna traccia di macchine agricole.

Il 55enne Antonio Marino è morto mentre dall’area jonica della Calabria tornava a casa a Catania alla fine di un viaggio di lavoro. L’uomo, alla guida della sua Opel Mokka, si è schiantato contro una Jeep Cherokee per cause ancora da stabilire, ed è morto sul colpo.

Dell’altro 55enne conosciamo per ora solo le iniziali, D.C. Si tratta di un operaio morto in uno stabilimento di Teverola (Caserta) per un malore durante il turno.

#silvanobrunini#antoniomarino#mortidilavoro

(Courtesy by Piero Santonastaso/Morti di lavoro).

Maggio 2024: 35 morti (sul lavoro 32; in itinere 3; media giorno 3,5)

Anno 2024: 400 morti (sul lavoro 316; in itinere 84; media giorno 3)

55 Lombardia (37 sul lavoro – 18 in itinere)

45 Campania (34-11)

39 Emilia Romagna (31-8)

33 Veneto (24-9)

29 Toscana (26-3), Sicilia (21-8)

24 Puglia (20-4)

23 Lazio (16-7)

21 Piemonte (17-4)

16 Abruzzo (13-3)

13 Calabria (10-3)

12 Sardegna (11-1)

11 Marche (9-2)

10 Liguria (8-2)

9 Estero (8-1)

8 Trentino (6-2)

7 Alto Adige (7-0)

5 Friuli V.G. (5-0), Umbria (5-0)

4 Valle d’Aosta (4-0)

3 Basilicata (3-0)

1 Molise (1-0).

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 95 morti (sul lavoro 75; in itinere 20; media giorno 3,2)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Le lotte studentesche nelle università USA contro l’occupazione israeliana a Gaza continuano.

Al Massachusetts Institute of Technology, dopo quasi tre settimane nel campus, l’accampamento studentesco filo-palestinese del MIT finisce con una decina di arresti

Dieci studenti sono stati arrestati venerdì mattina e condotti davanti al tribunale distrettuale di Cambridge, dove sono stati accusati di violazione di domicilio e rilasciati.

È stato detto loro che se si attengono agli ordini ricevuti dal MIT sul loro comportamento nel campus, le accuse verranno archiviate entro il 10 luglio.

Ad Harvard, gli studenti dell’accampamento filo-palestinese, Harvard Out of Occupied Palestine, hanno rifiutato l’offerta del presidente dell’Università di Harvard di porre fine alla loro protesta venerdì mattina.

(Fonte: The Boston Globe).

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Vittime della strada? No, della strage: a maggio già 31 morti di lavoro.

Più del 10% dei morti di lavoro appartengono al settore dell’autotrasporto, ma per qualche misterioso motivo si tende a considerarli vittime della strada.

Nelle ultime 36 ore il comparto conta 3 nuove vittime, che portano il totale dell’anno a 42.

Il 41enne Riccardo Gedruschi, milanese, moglie e due figli, è morto giovedì 9 maggio a Parabiago (Milano) sulla provinciale 109, in uno scontro frontale tra il suo camion e un furgone, incidente nel quale è rimasta coinvolta anche un’auto.

Il 52enne Fabrizio Colombi, residente a Stradella (Pavia), è stato protagonista e vittima di un terribile incidente avvenuto giovedì 9 al mattino sulla A21 in direzione Brescia.

Il camion di Colombi, carico di fusti di acido peracetico, è entrato in collisione con una vettura all’ingresso dell’area di servizio Nure Sud (Piacenza).

Il camion si è ribaltato sopra la vettura, disperdendo il carico. Il lavoratore è morto sul colpo, mentre i tre occupanti dell’auto sono rimasti leggermente intossicati dall’acido, insieme ad altre quattro persone che hanno provato a prestare i primi soccorsi. Colombi è morto sul colpo.

(Courtesy by Piero Santonastaso/Morti di lavoro)

Del camionista polacco di 69 anni stroncato da un malore mercoledì 8 maggio a Civitanova, conosciamo solo le iniziali: R.W.G. L’uomo intorno alle 22,30 attendeva che il suo tir venisse caricato, per partire poi alla volta della Francia, quando si è accasciato a terra. I soccorritori hanno tentato a lungo la rianimazione, senza risultato.

Floriano Pretolani aveva 72 anni e viveva a Brisighella (Ravenna) con la moglie. Giovedì 9 maggio è stato schiacciato dal tronco dell’albero che stava abbattendo. Il figlio ha chiamato i soccorsi e provato a liberare Pretolani con l’aiuto di una motosega, senza riuscirvi e quando sono arrivati i soccorsi era ormai troppo tardi.

Stefano Conti, 61 anni, era un elettricista che per conto di una cooperativa appaltatrice curava la manutenzione degli impianti dell’ospedale Misericordia di Grosseto. Giovedì 9 al mattino lamentava con i colleghi di non sentirsi bene, ma ha continuato nel lavoro.

Nel primo pomeriggio è stato trovato senza vita, accasciato su una scrivania.

A Roma il 37enne Alessio Benvenuti alle 4 del mattino di giovedì 9 stava andando al lavoro con lo scooter quando si è scontrato frontalmente con una vettura, al Villaggio Prenestino. Inutili i soccorsi.

#riccardogedruschi#fabriziocolombo#florianopretolani#stefanoconti#alessiobenvenuti#mortidilavoro

Maggio 2024: 31 morti (sul lavoro 29; in itinere 2; media giorno 3,4)

Anno 2024: 396 morti (sul lavoro 313; in itinere 83; media giorno 3)

54 Lombardia (36 sul lavoro – 18 in itinere)

44 Campania (33-11)

39 Emilia Romagna (31-8)

33 Veneto (24-9)

29 Sicilia (21-8)

28 Toscana (25-3)

24 Puglia (20-4)

23 Lazio (16-7)

21 Piemonte (17-4)

16 Abruzzo (13-3)

12 Calabria (10-2), Sardegna (11-1)

11 Marche (9-2)

10 Liguria (8-2)

9 Estero (8-1)

8 Trentino (6-2)

7 Alto Adige (7-0)

5 Friuli V.G. (5-0), Umbria (5-0)

4 Valle d’Aosta (4-0)

3 Basilicata (3-0)

1 Molise (1-0).

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 95 morti (sul lavoro 75; in itinere 20; media giorno 3,2)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Di che cosa parliamo quando parliamo del parlare.

“Proprio Chomsky lo chiama Lad, language acquisition device («dispositivo per l’acquisizione linguistica»).

Questo Lad, in base a quanto sappiamo oggi, funziona in cinque fasi: inizialmente, l’infante osserva quello che gli o le accade attorno, notando le conseguenze delle sue azioni (piango, quindi mi prendono in braccio), ma anche rilevando delle regolarità linguistiche; poi, passa alla creazione di ipotesi in base a quanto osservato, tanto da abbandonare forme irregolari precedentemente acquisite «a memoria», come forme singole (per esempio, il bambino conosce già aprire e il participio passato aperto, ma in questa fase si costruisce una forma come aprito, come giocare dà giocato: l’ha costruita tramite un ragionamento per analogia, registrando la forma come un participio passato e immaginandosi che tutti i participi passati di tutti i verbi funzionino allo stesso modo); procede con la verifica delle ipotesi, confermate o corrette dalle persone con cui interagisce; successivamente, fissa quanto imparato attraverso ripetizioni anche ossessive; infine, può esserci un’attività di riflessione che, seppur sporadica nei primi anni di vita, diventa sempre piú consueta (a scuola si ragiona anche sulla lingua).

Insomma, abbiamo un hardware; sappiamo che installato su questa macchina abbiamo anche un certo programma, ma prima di poterlo usare dobbiamo fare un’operazione: attivarlo.” (da “Grammamanti: Immaginare futuri con le parole” di Vera Gheno) 

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Attualità

L’autogol.

Gli epigoni di Berlusconi.

“Se ogni indagato si dimette l’Italia si ferma”, lo ha dichiarato Salvini che non si rende conto di aver confessato che in Italia la corruzione politica ha vinto.

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Attualità

Netanyahu farà perdere le elezioni a Biden.

“Mentre le proteste nei campus universitari mettono al centro della scena il conflitto Israele-Hamas, i democratici esortano Biden ad ascoltare i giovani elettori

Alcuni attivisti del partito temono che, se la rabbia per il Medio Oriente dovesse continuare nei campus, ciò potrebbe costare a Biden le elezioni”.

Lo scrive il Boston Globe.

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Attualità

C’è il patriarcato nel linguaggio.

 “Per esempio, è plausibile che la donna abbia inventato l’agricoltura, avendo la possibilità di vedere germogliare i semi sparsi casualmente per terra attorno all’abitazione.

C’è un’abitudine ben radicata, nella nostra società, a pensare che il ruolo della donna sia sempre stato ancillare rispetto a quello dell’uomo.

Ma questo pregiudizio, probabilmente, è il frutto di un punto di vista parziale, tipico di una visione androcentrica della società e della cultura.

Negli anni Settanta, se ne rese ben conto un gruppo di storiche statunitensi, le quali decisero fosse arrivato il momento di introdurre nuovi punti di vista nello studio della storia: e siccome storia in inglese si dice history, e per puro caso questa parola sembra iniziare con his, che è il possessivo «di lui», ecco che colgono la palla al balzo e iniziano a parlare di herstory, «storia di lei».

Non erano ignoranti, sapevano bene che l’origine della parola history non aveva nulla a che fare con his; ma approfittarono dell’assonanza per creare un termine dal valore apertamente politico, teso a criticare una visione unilaterale non solo della storia, ma un po’ di tutte le materie, data per naturale.” (da “Grammamanti: Immaginare futuri con le parole” di Vera Gheno).

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Attualità

A scuola di borghesia.

“A Firenze, e nella maggior parte delle altri città su cui si hanno notizie, un ragazzo nelle scuole laiche private o municipali – le alternative erano le scuole religiose, allora piuttosto in declino, o una delle poche scuole umanistiche – riceveva due gradi di istruzione.

Per circa quattro anni, a partire dall’età di sei o sette anni, egli frequentava una scuola elementare o botteguzza, dove imparava a leggere e scrivere e alcune nozioni di base di corrispondenza commerciale e formule notarili.

Poi, per circa quattro anni, a partire dall’età di dieci-undici anni, la maggior parte perseguiva gli studi in una scuola secondaria, l’abbaco.

Qui essi studiavano alcuni libri un po’ impegnativi come Esopo e Dante, ma la maggior parte dell’insegnamento era a questo punto basato sulla matematica.

Pochi proseguivano ulteriormente ed entravano all’università per diventare avvocati, ma per buona parte della gente appartenente alla borghesia le nozioni matematiche acquisite nella scuola secondaria costituivano il nucleo centrale della loro formazione intellettuale e della loro cultura.

Molti dei loro manuali esistono ancora oggi e ci si può rendere conto molto chiaramente della natura di questa matematica: era una matematica commerciale strutturata sulle esigenze del mercante e entrambe le sue principali nozioni sono profondamente inserite nella pittura del Quattrocento”. (Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento”, Michael Baxandall, Einaudi.)

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Biden è ostaggio di Netanyahu.

Se Netanyahu invade Rafah fermerò le forniture di armi americane a Israele, dice Biden.

Più che una minaccia, sembra una confessione: ogni civile, compresi i bambini; ogni reporter e ogni medico è stato ucciso da bombe e proiettili made in USA.

Biden fa il doppio gioco perché è in campagna elettorale.

A Netanyahu ha concesso di fare tutto quello che il gabinetto di guerra ha deciso, compreso l’ingresso a Rafah.

La versione secondo cui non è un’operazione in grande stile è semplicemente un sotterfugio propagandistico.

Biden, però, deve tenere a bada l’opposizione giovanile, che rischia di fargli perdere le elezioni.

Secondo il New Yorker, nel 2020 vinse grazie al voto del 60% dei giovani americani, che questa volta gli gireranno le spalle: la repressione nelle università è stata fatale.

La credibilità di Biden sembra terribilmente vicino al punto di non ritorno.

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