“Un oggetto riflette un disegno di luce sull’occhio. La luce entra nell’occhio attraverso la pupilla, viene raccolta dal cristallino e proietta sulla schermo che si trova nel retro dell’occhio, la retina.
Quest’ultima è dotata di una rete di fibre nervose che, per mezzo di un sistema di cellule, filtrano la luce a diversi milioni di ricettori, i coni.
La reazione di coni, che sono sensibili sia alla luce che al colore, consiste nel portare al cervello le informazioni relative alla luce e al colore.
E a questo stadio del processo che nell’uomo gli strumenti della percezione visiva cessano di essere uniformi e cambiano da individuo a individuo.
Il cervello ha il compito di interpretare i dati di prima mano relativi alla luce e al colore ricevuti dai coni e ciò avviene sia grazie a delle capacità innate che grazie a quelle che gli derivano dall’esperienza.
Esso ricava i relativi dettagli dal suo bagaglio si schemi, categorie, abitudini di deduzione e analogia – ‘rotondo’, ‘grigio’, ‘liscio’, ciottolo’ ne possono essere gli esempi verbali – e questi forniscono una struttura e quindi un significato alla fantastica complessità dei dati oculari”. (“Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento”, Michael Baxandall, Einaudi).
“Può darsi che ora non abbiamo più tanto tempo da dedicare alla contemplazione delle immagini che ci stanno di fronte, ma la gente un tempo lo aveva e traduceva la contemplazione in un che di utile, di terapeutico, di edificante, di consolatorio e di terrificante.
Si comportava così per raggiungere uno stato di empatia; e quando si esamina il modo in cui si agiva, si getta una vivida luce non solo sulla funzione delle immagini, ma su un potenziale che per molti di noi resta da attivare”. (“Il potere delle immagini”, David Freedberg, Einaudi.)
Mentre le 5 vittime di Casteldaccia iniziano a scivolare nel dimenticatoio – complice anche il fatto che è una tragedia del Meridione, meno appetibile per i media – in Italia registriamo altri 5 morti di lavoro, ben 4 dei quali in Sardegna.
Martedì 7 maggio un robot subacqueo ha individuato a 106 metri di profondità i corpi dei due sub scomparsi domenica mattina mentre posizionavano una boa in corrispondenza del relitto della San Marco, piroscafo affondato dagli inglesi nel 1941, quasi 3 miglia al largo di Villasimius (Cagliari).
Si tratta di Stefano Bianchelli, 56 anni, nato a Todi ma da oltre 30 anni residente a Villasimius, dove ha aperto il primo diving center della zona, e del cagliaritano Mario Perniciani, 60 anni.
I corpi giacevano nei pressi del relitto, a qualche metro di distanza l’uno dall’altro.
L’ipotesi più accreditata, al momento, è quella di un malore di uno dei due e del tentativo fallito dell’altro di soccorrerlo.
Nella serata di lunedì 6 maggio si è spento all’ospedale Brotzu di Cagliari Pietro Cabras, operaio forestale di 28 anni, residente a Oristano.
Lunedì mattina è stato colto da un malore, probabilmente a causa del fumo inalato, durante lo spegnimento di un incendio nelle campagne di Palmas Arborea.
Soccorso dai compagni di lavoro, è stato trasportato al Brotzu con l’elisoccorso.
I medici hanno trovato sul suo corpo anche una zecca, che potrebbe aver contribuito a debilitarne il fisico.
Martedì 7 nelle campagne di Aritzo (Nuoro), è morto Salvatore “Totto” Pranteddu, 61 anni, moglie e due figli, maestro torronaio nonché silvicoltore specializzato nella coltivazione del castagno.
Proprio potando un castagno è caduto da un’altezza di circa 5 metri, morendo sul colpo.
La quinta vittima è la 53enne Daniela Cardillo, commessa in un negozio di abbigliamento di Torino.
Martedì 7 maggio ha aperto al mattino il negozio, dopodiché ha accusato un malore e si è rivolta per aiuto al vicino centro estetico, da dove sono stati allertati i soccorsi.
Le condizioni della lavoratrice sono però peggiorate rapidamente e il personale medico nulla ha potuto.
“La verità è che la realtà influenza la lingua, certo, ma anche la lingua influenza la realtà, seppure in maniera quasi sempre meno diretta.
La parola ci rende animali narranti e narrati, modifica la realtà che ci circonda, il nostro rapporto con noi stessi e con le altre persone: tutto è mediato dalla parola.”
(“Immaginare futuri con le parole” di Vera Gheno).
Sul sito dell’AMAP, Azienda Municipalizzata Acquedotto di Palermo, neanche una parola di cordoglio.
A Casteldaccia lunedì 6 maggio cinque lavoratori sono morti soffocati dalle esalazioni di idrogeno solforato in una vasca di sollevamento delle acque reflue dell’Amap (Azienda municipalizzata acquedotto di Palermo).
Un sesto è ricoverato in condizioni gravissime, altri tre se la sono cavata con danni minori.
Nessuno dei nove è dipendente diretto Amap: sette fanno capo alla Quadrifoglio group srl di Partinico, appaltatrice della manutenzione impianti nell’area orientale, due sono interinali Amap.
Secondo i sindacati, diversi di loro sono sottoinquadrati rispetto alle mansioni svolte.
Secondo il comandante dei vigili del fuoco di Palermo, Girolamo Bentivoglio, tutti i lavoratori scesi nel pozzo erano sprovvisti di DPI.
Il presidente Amap, Alessandro Di Martino, se ne lava le mani: “Non è comprensibile come non si siano protetti. Noi abbiamo protocolli di sicurezza che impongono l’osservanza di regole strette alle ditte che si aggiudicano gli appalti e per gli interinali teniamo una formazione rigida”.
Esemplare: chissà perché nessun responsabile Amap era presente sul cantiere, aperto dal 29 aprile, e chissà perché ai sindacati risulta che nessuno dei lavoratori coinvolti abbia svolto attività di formazione – rigida o meno – nell’ultimo anno.
Le cinque vittime sono Epifanio Assazia, 70 anni, contitolare della Quadrifoglio, di Partinico ma residente ad Alcamo (Trapani); Ignazio Giordano, 57 anni, di Partinico, operaio Quadrifoglio; Giuseppe La Barbera, 28 anni, di Palermo, moglie e due figli, interinale Amap; Giuseppe Miraglia, 47 anni, di San Cipirello (Palermo), operaio Quadrifoglio; Roberto Raneri, 51 anni, di Alcamo, operaio Quadrifoglio.
Il lavoratore in gravissime condizioni al Policlinico di Palermo è Domenico Viola, 62 anni.
Come se la strage di Casteldaccia non bastasse, contiamo altre tre vittime del lavoro, che portano il totale di lunedì 6 maggio a otto vittime.
Marina Bussone, 63 anni, è morta a Valloriate (Cuneo), travolta dal rimorchio agganciato al trattore guidato dal marito.
I due coniugi avevano raccolto legna in un terreno di proprietà e sulla strada del ritorno il trattore è sbandato in curva, provocando il ribaltamento del rimorchio e la morte della donna.
Giampietro Toffanello, 61 anni, è morto a Nanto (Vicenza), vittima del ribaltamento in un canale del trattore con il quale stava sfalciando l’erba in un terreno di proprietà. Lascia la moglie e due figli.
La terza vittima è un volontario di Palazzolo sull’Oglio (Brescia), Andrea Pirotta, 62 anni, stroncato da un malore durante le operazioni di tinteggiatura degli spogliatoi dell’impianto parrocchiale.
AdnKronos ha raccolto la dichiarazione di Piero Santonastaso, ideatore di “Morti di lavoro”.
Piero Santonastaso
“Assistiamo a una bella differenza di numeri questo perché l’Inail usa criteri molto stretti, lavora sulle denunce, sulle quali pende sempre la mannaia della burocrazia e inoltre non considera molte categorie di lavoratori”
“Con l’incidente di oggi in Sicilia sul lavoro arriviamo a 379 morti nel nostro Paese da inizio anno, in pratica in soli 127 giorni.
Questi sono i dati diversi da quelli dell’Inail che ha atteso il 1° maggio per diffondere il dato dei morti del primo trimestre 2024 conteggiando 191 vittime, in calo del 2,6% rispetto al 2023.
Eppure a noi risultavano 260 morti con un aumento del 3% in un anno”.
Così all’Adnkronos/Labitalia è Piero Santonastaso, ideatore e curatore di ‘Morti di lavoro’, progetto partito su Facebook e in cui racconta, e da conto, del fenomeno degli incidenti sul lavoro al di là dei dati ufficiali.
“Con i morti di oggi – rimarca – in Sicilia arriviamo a 29 morti dall’inizio dell’anno, 21 proprio sul luogo di lavoro e gli 8 in itinere.
Nella pessima classifica italiana la Sicilia sale così al quinto posto.
Al primo posto c’è fissa e stabile, da anni, la Lombardia, a seguire la Campania, l’Emilia-Romagna, il Veneto e ora appunto la Sicilia”.
L’icona di “Morti di lavoro”, il progetto che Santonastaso ha lanciato su Facebook.
«Se fossero state prese (le misure di precauzione necessarie, ndr) non avremmo avuto cinque morti».
Nelle parole del comandante dei Vigili del fuoco di Palermo, Girolamo Bentivoglio, c’è già tutta la verità sulla strage di Casteldaccia (Palermo), costata la vita a cinque operai al lavoro nel sistema fognario nei pressi delle cantine Duca di Salaparuta: stavano facendo un lavoro pericoloso senza le necessarie protezioni.
Le vittime sono Epifanio Assazia, 71 anni, contitolare dell’impresa esecutrice dei lavori, la Quadrifoglio group srl di Partinico ; Ignazio Giordano, 57 anni; Giuseppe La Barbera; Giuseppe Miraglia; Roberto Raneri, 51 anni.
Bentivoglio ha spiegato che la morte degli operai è stata dovuta alla «concentrazione di gas tossico (idrogeno solforato, ndr) che non ha lasciato nessuna possibilità.
Il gas superava i 100 ppm con un limite consentito di 10 ppm: gli operai non hanno avuto scampo».
Strabone (60 a.C-24 d.C.), geografo, storico e filosofo greco antico.
Le questioni etiche derivano da due ipotesi e pregiudizi ben radicati: in primo luogo, dalla nozione platonica e neoplatonica (di cui tutti siamo in qualche misura impregnati) secondo cui la forma più alta di bellezza è spirituale e pertanto separata dal terreno e dal materiale; e in secondo luogo, dalla premessa che la bellezza indebolisce e corrompe.
La connessione tra queste due idee avviene in termini politici, come si vede nel brano dell’antico geografo Strabone: “Gli antichi romani non si occupavano della bellezza, preoccupati com’erano di faccende più importanti e necessarie”. (Strabone, Geografia)
Non appena la immagini (non necessariamente immagini di divinità, ma semmai in particolare le immagini belle) vennero introdotte a Roma, la morale cominciò a declinare, l’antica moralità e virtù si indebolirono e corruppero per effetto dell’arte e di altri costumi decadenti importati dall’estero – la vena xenofoba è significativa.
L’antica Roma era pura, virile e aniconica: fu corrotta dall’introduzione dell’arte e di pratiche straniere.
La principale categoria peggiorativa dell’arte e dello stile romani era quella asiatica, da tempo associata alla rilassatezza e alla corruzione.
Dopo tutto fu in Asia, sotto il comando permissivo di Silla (82-79 a.C.) che “un esercito del popolo romano apprese per la prima volta a indulgere alle donne e alle libagioni; ad ammirare le statue, i quadri e i vasi cesellati, a rubare da abitazioni private e luoghi pubblici, a saccheggiare i santuari e a dissacrare ogni cosa, sacra e profana”. (Sallustio, De Bellum Catilinae)
Vi è, in questa valutazione chiara e sintetica, un’epitome del rapporto tra arte e vizio (specie i vizi che hanno a che vedere con donne e liquori), ma anche della dialettica singolarmente complessa tra il piacere dato dalle immagini e l’ostilità nei loro confronti. (“Il potere delle immagini”, David Freedberg, Einaudi.)
La decisione di pubblicare questo interessante commento di Marco Bascetta, apparso sulla newsletter di Il Manifesto fa seguito al post “L’Ue ha sbagliato tutto”.
Prima ancora che la campagna elettorale per le elezioni di giugno venisse ufficialmente aperta, il Parlamento e le istituzioni europee si erano affrettati a mettere al sicuro i temi più scottanti e decisivi.
Così gli accordi sulla politica migratoria, sul sostegno militare senza limitazioni all’Ucraina, il patto di stabilità, non saranno più argomenti di discussione nella contesa elettorale.
C’è chi dice «meglio così!» visto che il prossimo Parlamento dell’Unione sarà decisamente più a destra di quello attuale.
Fatto sta che, in particolare sullo spostamento fuori dai confini dei richiedenti asilo e sulla politica di accordi con i regimi che li dovrebbero trattenere, ovverosia imprigionare (ultimo aggiunto l’ameno Libano), ne sono stati ampiamente anticipati i prevedibili umori, così come con l’indecorosa e vile marcia indietro sul green deal.
La destra arriva all’appuntamento europeo con il vento in poppa e con una fisionomia precisa e riconoscibile.
Nonostante le contraddizioni e competizioni interne al suo schieramento, diviso nei due campi dell’Id e dell’Ecr, nel discorso politico e nella direzione di marcia l’aria di famiglia e i fattori comuni emergono con immediata evidenza.
Intento largamente condiviso è quello di accrescere il peso già considerevole degli stati nazionali negli orientamenti e nel governo dell’Unione.
Uno slogan come «l’Italia cambia l’Europa» manifesta spudoratamente, oltre a una stridula presunzione, l’intenzione di privilegiare la sovranità nazionale su quella europea, l’interesse patriottico su quello comunitario.
Cambiare l’Europa in questa accezione non significa naturalmente contrastarne i dogmi liberisti, ma tagliare le unghie dell’Unione privandola della possibilità di intervenire sulla torsione autoritaria dello stato di diritto e sulle politiche demagogiche e clientelari che la preparano e la accompagnano in diversi paesi del Vecchio continente.
Sul terreno le posizioni sono decisamente favorevoli agli schieramenti reazionari e nazionalisti.
Molti gli stati nazionali già conquistati dalla destra con il contributo delle sue componenti più radicali al sud come al nord, all’est come all’ovest.
Dalla Scandinavia, già socialdemocratica, all’Italia e la Grecia, passando per gran parte dell’Europa dell’Est e stati benestanti dell’Europa centrale. Inoltre, nei principali paesi dell’Unione l’estrema destra è in ascesa e le attuali coalizioni di governo arrancano.
Questa destra esibisce un’immagine nitida e univoca di cosa è e di che cosa intenda fare, sia per chi desideri affidarvisi, sia per chi la guarda con paura e avversione.
Altrettanto non può dirsi dello schieramento che dovrebbe contrastarla e che, secondo una ricetta screditata da innumerevoli fallimenti, cerca quando può di sottrarle argomenti assimilandoli in versione borghese.
La sinistra europea mostra un’immagine pallida, stinta, è spaventata dalla sua stessa ombra.
Ma soprattutto da quella diffusa diffidenza popolare per l’Europa che il suo stesso fiancheggiamento del dogma liberale non ha fatto altro che alimentare.
Ragion per cui non si può nemmeno immaginare, dopo le arcigne lezioni di austerità subite a maggior gloria della rendita finanziaria, che qualcuno possa esprimere un auspicio, in fondo ragionevole, come «l’Europa deve cambiare l’Italia» governata da una destra postfascista.
A conferma del fatto che un antifascismo restio a qualunque critica non insignificante del capitalismo reale è destinato all’impotenza.
Confinati a bordo campo, esibendo qualche striscione ispirato ai principi dell’89, i socialisti restano spettatori della partita che può definitivamente estrometterli.
Reggerà o non reggerà la barriera, cosiddetta tagliafuoco, che separa i conservatori dalla destra radicale?
Resisterà o meno il «soffitto di cristallo» che sbarra la strada alla destra sciovinista in Francia?
Tutto gira intorno alle convenienze del Partito popolare europeo, come testimonia l’indecente opportunismo di Ursula von der Leyen, che senza problemi si rivolgerebbe a destra pur di conservare la sua poltrona di presidente della Commissione.
L’argine verso la destra estrema è ovunque fragile e attraversato da inquietanti crepe.
In diversi paesi non proprio irrilevanti come Svezia, Finlandia e Italia, per non parlare dell’Est, formule di governo che poggiano sull’alleanza tra conservatori e destre xenofobe e nazionaliste sono in fiorente attività.
I democristiani tedeschi mostrano per il momento solo lievi cedimenti essendo l’Afd ai limiti dell’incostituzionalità. Ma sullo scacchiere europeo le cose potrebbero presentarsi molto diversamente.
E siccome le convenienze del Ppe sono anche quelle dei poteri economici dominanti, la domanda da porsi è se questi ultimi possano sentirsi ostacolati dalle fantasie nazionaliste della destra più radicale. Sembrerebbe proprio di no.
Il cambio di maggioranza a Bruxelles è dunque una eventualità tutt’altro che remota. (Marco Bascetta, Il Manifesto).
Persino i media si sono sentiti in dovere di dedicare spazio a Vincenzo Valente, 46 anni, morto dopo essersi arrampicato a 10 metri di altezza per le operazioni di manutenzione del nastro trasportatore numero 6, allo zuccherificio Srb di Brindisi.
Non tanto per la fine atroce – un braccio strappato via dal nastro, la morte per dissanguamento -, quanto perché nel 2015 anche il padre di Vincenzo, Cosimo, aveva perso la vita lavorando, caduto da un ulivo durante la potatura.
È accaduto alle 0,30 di sabato 4 maggio e sarebbe interessante sapere perché le operazioni di manutenzione, su un impianto che il sito dell’azienda descrive come avveniristico, vengono fatte di notte.
Di sicuro non per esigenze di produzione, dal momento che la stessa Srb (di proprietà dell’American Sugar Refining e della francese Cristal Union) specifica di operare 330 giorni l’anno, e nemmeno perché il nastro trasportatore lavora H24, se è vero che serve a trasportare nello stabilimento lo zucchero grezzo di canna che viene scaricato dalle navi nel porto di Brindisi.
Perché, dunque, Vincenzo Valente – peraltro dipendente di una ditta esterna – lavorava di notte alla manutenzione dell’impianto?
Si muore di notte anche negli stabilimenti Stellantis, ma viene da chiedersi ingenuamente perché si facciano i turni di notte in un’azienda che ogni due per tre ferma gli impianti italiani con le più svariate motivazioni.
Venerdì 3 maggio, alle 23,30, nello stabilimento Stellantis di Atessa (Chieti) è morto Massimo Di Florio, 56 anni.
Era da poco entrato al lavoro, per il turno notturno, quando è stato colpito da un infarto ed è spirato nel giro di pochi minuti.
I funerali lunedì 6 maggio a Lanciano, dove l’operaio viveva con la moglie e i due figli.
Aveva soltanto 26 anni John Sebastian Floriani, ma era un rocciatore e uno sciatore provetto.
Il 24 aprile era impegnato con alcuni colleghi nelle operazioni di messa in sicurezza di una parete rocciosa del monte Calisio, commissionate dal Comune di Trento.
In gergo, il disgaggio, la rimozione rapida di massi a rischio crollo. Mentre concludeva la giornata, recuperando l’attrezzatura, John Floriani è precipitato per una sessantina di metri.
È stato subito soccorso e ricoverato al Santa Chiara di Trento, dove ha subito diverse operazioni e lottato per la vita fino alla mattina di sabato 4 maggio, quando la sua fortissima fibra ha ceduto. Lascia i genitori e un fratello.
Ursula von der Leyen è stata la peggiore presidente della Commissione europea.
Mentre l’Ucraina ha capito di aver perso, di aver sperperato aiuti militari ed economici, di aver anche sperperato quel consenso, sia pur forzato dalla peggiore propaganda bellicista e atlantista, donne e uomini politici e testate giornaliste sono nel panico.
La sconfitta dell’Ucraina, ampiamente annunciata, è la sconfitta della classe dirigente della Ue e, di conseguenza, dei rispettivi governi, quello italiano compreso.
Questo fatto incontrovertibile peserà sulle prossime elezioni, proprio come la carneficina di Gaza sta pesando sulle presidenziali USA.
Anche nei ranghi della NATO sembrerebbe prevalere qualcosa di più evidente dell’imbarazzo.
Se c’era un modo per dimostrare l’inconsistenza politica e la debolezza militare di fronte al grande nemico dell’Occidente, come è stato dipinto con le tinte fosche mai raggiunte, neanche durante la Guerra Fredda, quel modo si è dispiegato e ha letteralmente scaraventato nel ridicolo l’Unione europea, e il suo ottuso servaggio alla NATO.
Da sinistra: Charles Michel presiede il Consiglio europeo, Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, Ursula von del Leyer, che presiede la Commissione europea.
Ursula von del Leyer, che presiede la Commissione, Charles Michel, che presiede il Consiglio, Roberta Metsola, presidente del Parlamento sono i responsabili istituzionali del fallimento della politica estera europea, “esternalizzata” presso la NATO.
Jens Stoltenberg e Josep Borrell.
Complici, spesso comici e ciarlieri, sono stati lo spagnolo Josep Borrell, l’Alto rappresentante per gli affari esteri, di uno spessore politico che più basso non si sarebbe potuto, per quando è stato supino agli intrighi della NATO, il cui segretario generale Jens Stoltenberg ha spesso dimostrato la filmica accoppiata tra chiacchiere e distintivo
Mentre Emmanuel Macron favoleggia di intervento militare diretto, boot on the ground, come dicono gli americani e Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, probabilmente messo fuori strada dalle elucubrazioni teorico-strategiche dei think tank Usa, – che sono da tempo la pietra angolare delle pagine estere del suo giornale, nonché dei suoi libri di analisi geopolitica – vaneggia di “linee rosse” attraversando le quali le truppe europee marcerebbero contro i russi, è sempre più vero lo scenario reso pubblico da Vadym Skibitsky.
Vadym Skibitsky.
Il vicecapo dell’intelligence militare di Kiev, nell’intervista concessa all’Economist, afferma senza mezzi termini che non c’è nessuna possibilità che l’Ucraina vinca sul campo. Per aggiungere, una frase lapidaria: “Simili guerre possono finire solo con un accordo”.
È giunto il momento, appunto, di una vera trattativa di pace, tra Ucraina e Federazione Russa.
Una trattativa vera, non quella conferenza-farsa convocata a giugno in Svizzera, che, con tutta la buona volontà da parte elvetica, sembra una vera e propria presa in giro delle opinioni pubbliche: avete mai visto fare la pace senza la presenza di uno dei due nemici?
Un’idea tanto più strampalata visto che molto probabilmente a giungo la situazione sul terreno potrebbe essere completamente a favore dei russi.
Con conseguenze politiche disastrose per la credibilità delle cancellerie atlantiste: come si giustificheranno ai rispettivi elettorati gli sprechi di miliardi di dollari e di euro, le tonnellate di armamenti forniti inutilmente, i morti, militari e civili, la distruzione delle infrastrutture?
La Ue non arriverà integra alle elezioni del giugno 2024. La forzatura bellicista può deflagrare nelle urne, con risultati drammatici per le democrazie.
Con buona pace dei partiti politici italiani che stanno conducendo una campagna elettorale letteralmente fuori dal mondo.
“Consideriamo le religioni monoteistiche: i teologi e i legislatori possono inveire contro le immagini figurative e le tradizioni canoniche possono impedirle, ma in pratica, tali restrizioni sono destinate a fallire.
Naturalmente non si tratta solo di una questione pratica: malgrado tutte le proibizioni della Bibbia e lo condanne e riserve della Mishnah, le culture ebraiche hanno semmai ‘teso’ all’iconico, dalla costruzione del vitello d’oro e di tutte le immagini ricordate nella Bibbia (idolatre o meno) fino alla splendide decorazioni narrative e ornamentali della sinagoga del III secolo a Dura Europo.
Dura Europos è in Mesopotania, oggi Siria.
Nonostante la disapprovazione (a volte assai severa) di Maometto e dell’Hadith, entrambe le principali correnti islamiche, i sunniti e gli sciiti, hanno posseduto un’ampia varietà di immagini, sin dai tempi più antichi, come dimostrano le numerose pitture dei palazzi di Quçair Amra e di Samarra.”
Palazzo di Amra, nel deserto della Giordania orientale.
(Cfr. pag. 88 in “Il potere delle immagini”, David Freedberg, Einaudi.)
Marina Calderone, ministra del lavoro di un paese nel quale tre morti di lavoro è la media quotidiana.
Vincenzo Valente di 47 anni è morto in un modo atroce in uno zuccherificio del brindisino: il nastro trasportatore gli ha maciullato un braccio, poco dopo l’emorragia lo stroncato.
Nove anni fa, suo padre Cosimo di 65 anni è morto cadendo da un albero sul quale lavorava alla potatura.
Non parlate di predestinazione, fatalità, disgrazia: l’assenza di leggi che impongano efficaci misure di sicurezza sul lavoro è un crimine.
Vincenzo Valente morto di lavoro nello zuccherificio di Latiano, in provincia di Brindisi.
Il maggior generale Vadym Skibitsky, vicecapo dell’intelligence militare di Kiev, ha rilasciato una intervista all’Economist nella quale dichiara di “non vedere una strada affinché l’Ucraina possa vincere la guerra sul campo”.
E ha aggiunto: “Simili guerre possono finire solo con un accordo”.
È un filo Putin pure lui, o finora i governi Usa e Ue ci hanno solo raccontato una disgustosa serie di menzogne belliciste?
Mi deve essere caduta da una tasca mentre salivo in auto. Era insieme a una matita, che invece ho ritrovato, perché è caduta all’interno dell’auto.
Spero che chi la trovi, la usi. Il digitale ci sta facendo pendere la manualità nella scrittura.
La cosa migliore da fare e tornare a scrivere a mano. In questo senso, la cosa ancora migliore è usare una penna stilografica.
Ce ne sono a basso costo, chi non vuole sporcarsi con la ricarica d’inchiostro, può usare le cartucce, quelle che si infilano senza perdere una goccia. Perché proprio una stilografica ?
Perché il pennino obbliga a scrivere lentamente. Ti fa comporre le vocali e le consonanti in modo leggibile, quindi ti costringe ad andare piano, a riflettere prima di scrivere.
Il pennino ci ricorda che scriviamo per comunicare con gli altri e gli altri devono essere messi nell’agevole condizione di leggere e capire che cosa vogliamo dire.
La penna stilografica ci spinge a scrivere in corsivo parole che scendono lentamente dalla mente, attraversano il braccio, escono dalle dita che tengono la penna e si riversano sulla pagina bianca.
Le parole diventano frasi che formano quei concetti che la nostra mente ha formulato.
La pagina scritta a mano ti interroga: era proprio questo che volevi dire? Sei sicuro che siano le parole adatte? Ti sei davvero spiegato?
Quando, riletto il testo scritto a mano, lo devi digitare, copiando dal foglio, ecco che di nuovo controlli che quello che hai pensato sia scritto bene, abbia un ritmo che invogli alla lettura.
Lenirebbe il dipiacere di averla persa sapere che almeno chi ha trovato la mia penna stilografica ne voglia fare buon uso.
Eco-talebano, la parola chiave che nega i cambiamenti climatici.
La nuova comunicazione della sostenibilità. (Courtesy by Newsletter Treccani)
Negli ultimi anni si è venuto a creare un vero e proprio vocabolario della sostenibilità, che è ancora in divenire. Da Antropocene o Capitalocene a Plasticene e Wasteocene (ne ho parlato nell’articolo) sino ai composti di eco-: in primis il neologismo-manifesto della Generazione Z , accolto nel 2022 nel lessico dell’American Psychological Association, seguito da una serie di nuovi termini frutto della creatività morfosintattica di giornalisti e politici non proprio simpatizzanti nei confronti delle svolte eco-attiviste. Da qui la nascita di eco-teppista, eco-vandalo, eco-terrorista, eco-delinquente e in particolare di eco-talebano, entrato nel Libro dell’anno di Treccani (2023). Nella voce dedicata, si legge che il lemma, composto dal confisso eco- aggiunto a talebano (nel senso figurato di ‘estremista intransigente’), è legato al linguaggio della «pubblicistica» e della «polemica politica» – si pensi alle più recenti occorrenze nei titoli come “Negazionisti”.Gli eco talebani all’assalto: se piove è colpa della Meloni («Il Giornale», 25/7/2023) oppure I sindaci eco-talebani ora cancellano anche il rito del falò invernale («Libero», 6/1/2024) –, dove è utilizzato per riferirsi all’«attivista ecologista che compie azioni dimostrative estreme» per il futuro del nostro pianeta. Tra queste, per esempio, rientrano le proteste che bloccano il traffico (, , 26/8/2024), oppure gli attacchi dove si lancia cibo, vernice o altre sostanze su opere d’arte famosissime (dalla Monnalisa ai Girasolidi Van Gogh), come riportano i casi associati ai membri di gruppi di Just Stop Oil o Ultima Generazione, che hanno scelto l’approccio della resistenza civile per sensibilizzare la popolazione al cambiamento climatico e ambientale.
La posizione delle testate giornalistiche.
Utilizzare il termine eco-talebano in modo neutro non è possibile. La sua definizione non è una questione di punti di vista, perché il linguaggio e la conseguente scelta lessicale per esprimere i nostri pensieri sono politici, raccontano cioè le nostre posizioni sul mondo. Di come alcuni slittamenti semantici abbiano colto le ultime trasformazioni della società, ha parlato Alessandro Volpi in un dossier di dal titolo (6//6/2023): l’analisi, condotta sulle 16 testate giornalistiche nazionali più lette in rete, evidenzia alcune tendenze narrative sul cambiamento climatico: dalle teorie complottistiche con titoli acchiappalike “ecco qual è la verità…”, “le cose che non vi dicono…”, “ossessione” («Il Giornale»), all’accusa degli attivisti del clima chiamati “ecovandali”, “ecocretini” («Il Giornale»), “terroristi del clima” («Il Foglio»), “eco-teppisti”, “pagliacci”, “gretini”, “sciacalli”, “eco-talebani” («Libero»)». Al contrario, si legge nell’articolo, «altre testate (soprattutto «Il Fatto», «La Stampa», ) hanno denunciato il negazionismo climatico e proposto narrazioni neutrali o favorevoli all’attivismo climatico, dando in alcuni casi la parola agli stessi attivisti e coprendo in almeno un caso («Corriere») i processi in corso a carico di questi ultimi.
Tra l’attivismo e la “fatica di Apocalisse” c’è di mezzo il mondo,
Noi e loro. E in mezzo tante contraddizioni che fanno vacillare i confini. Il termine eco-talebano è figlio di una distorsione che riguarda l’etichetta di ideologia applicata all’ambiente, utilizzata spesso come sinonimo di esagerazione e soprattutto esasperazione antiscientifica per spostare l’attenzione su posizioni realiste o presunte tali. La stessa etichetta di , che non riguarda solo il campo della sostenibilità, ma anche temi quali i diritti umani, la parità di genere, la cultura ecc., si avvicina sempre di più a questo campo semantico, che pare ormai un frullatore dove risiede anche il termine , scambiato perlopiù come sinonimo di attivista, come si legge in un articolo di , (17/10/2023). Questa posizione, molto più che linguistica, nei confronti del “fanatismo green”, è la conseguenza di un dibattito che dura da tempo e che suscita (si spera!) in noi reazioni dalle quali non possiamo prendere troppa distanza. Certo è che molte delle azioni compiute per sensibilizzarci sul tema, anziché motivare all’azione o anche a una presa di coscienza più matura, ci ha condotti al polo opposto, dove riposiamo beati nell’Apocalypse Fatigue, ovvero nella “stanchezza da Apocalisse”, un sentimento di esaurimento fisico e mentale su cui incide anche la saturazione dalle brutte notizie, che esplode prima in un senso di impotenza di fronte alla complessità del futuro e poi nel rifiuto, nel non volerne più saperne niente. Il paradosso è proprio qui, tra gli estremismi che ci contraddistinguono. Chi arriva a negare l’esistenza del cambiamento climatico, molto probabilmente considererà un eco-talebano chiunque si interessi all’argomento. Dunque, esiste una soglia oltre la quale da ecologisti si diventa estremisti?
Il ciclo L’alfabeto del presente è curato e scritto da Beatrice Cristalli. https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/autori/Cristalli_Beatrice
È un formidabile supporto alla lotta di liberazione della Palestina, ma anche alla lotta per la democrazia in Israele, contro quel satrapo bellicista e sanguinario di Netanyahu.
«Spiegare il titolo di questo libro potrebbe essere molto semplice.
È infatti sufficiente accendere la televisione o dare un’occhiata ai giornali, andare in giro sui bus o immergersi nei social network per rendersi conto che l’Italia è un paese razzista.
Con l’affermazione delle destre e della demagogia autoritariadegli ultimi anni, favorita dall’inasprirsi di una crisi che sembra infinita, il razzismo istituzionale, dall’alto, si combina con il razzismo dal basso, popolare, giustificandolo e incitandolo.
Il risultato è che il razzismo, nelle sue forme più brutali e violente, è stato sdoganato, legittimato, normalizzato.
Ciò che fino a qualche tempo fa era frenato dal pudore, viene oggi espresso senza timori, addirittura con fierezza, con l’orgoglio dell’ovvietà.
Il terribile trionfo dell’uomo qualunque.
Tuttavia, la spiegazione più semplice rischia di essere semplicistica se privata della storia, ovvero delle genealogie, origini e sviluppi del razzismo, in Italia e più in generale nella società capitalistica in cui da alcuni secoli viviamo.
Se affrontiamo questo percorso, più lungo, complesso e duro, dobbiamo accettare di sfidare non solo il senso comune dell’uomo qualunque, ma anche le scorciatoie, le rimozioni e le visioni consolatorie o autoassolutorie di chi pensa che l’antirazzismo sia una mera questione morale, di buoni sentimenti, di convivenza civile.
Talvolta per mettere a fuoco una cosa bisogna allontanarsene, per vederla così nella sua interezza e dunque poter intervenire nella sua sostanza.
È questo il tentativo che proverà a fare libro, non per mitigare le responsabilità storiche del razzismo delle Meloni e dei Salvini, ma al contrario per spiegare come il razzismo delle Meloni e dei Salvini sia il perverso prodotto di una lunga storia che riguarda tutte e tutti».
(Introduzione a “L’Italia è un paese razzista”, Anna Curcio, DeriveApprodi.)
Inail ha atteso il 1° Maggio per diffondere il dato dei morti di lavoro del primo trimestre 2024: 191, con un calo del 2,6% rispetto al 2023.
Nel primo trimestre a noi, nel nostro piccolo, risultavano 260 morti di lavoro (vedi post del 16 aprile), con un aumento del 3% rispetto all’anno scorso.
Balla una differenza di 69 vittime (+36% rispetto all’Inail), vite svanite nel nulla.
Certo l’Inail usa criteri molto stretti, lavora sulle denunce (sulle quali pende sempre la mannaia della burocrazia), inoltre non considera molte categorie di lavoratori.
Però sono i dati Inail a fare testo, ripresi acriticamente dai media e usati dal governo a seconda della convenienza del momento.
Generalmente la nostra presidenta del Consiglio sulla materia tace, mentre la ministra incompetente pure, affezionatissima solo alla mirabolante idea della patente a punti per le aziende dell’edilizia.
Torniamo a ripetere: è tempo che l’Italia rimetta mano all’intero sistema della certificazione, non prima di essersi dotata di una legislazione in grado, se non di stroncare, di ridurre ai minimi termini il fenomeno degli omicidi sul lavoro.
Emblematico è il caso di Raffaele Landi, allevatore e agricoltore di 69 anni, morto ilmattino del 1° Maggio a Gavassa (frazione di Reggio Emilia).
Dopo la mungitura delle 5, alle 8 si era messo alla guida di un trattore con agganciata una falciatrice per raccogliere il foraggio per gli animali.
Mentre raggiungeva uno dei suoi terreni, impegnato in una svolta a sinistra per imboccare una strada di campagna, è stato tamponato con violenza da un’autocisterna per il trasporto latte che tentava il sorpasso.
Il trattore è stato sbalzato in un campo e si è rovesciato, uccidendo l’agricoltore.
I media locali informano che secondo il servizio di Medicina del Lavoro della Ausl di Reggio Emilia non ci sono gli elementi per considerare la morte di Landi come legata al lavoro. Evidentemente ci si mette alla guida di un trattore per fare una scampagnata…
Il 1° Maggio registra un’altra vittima del lavoro agricolo. Si tratta del 64enne Mario Mondello, che ad Agrigento stava lavorando in un suo terreno con un trattore cingolato.
L’uomo ha perso il controllo del mezzo, che si è ribaltato in un laghetto artificiale. I vigili del fuoco hanno dovuto lavorare fino alle 3 della notte per recuperare il corpo dell’agricoltore, incastrato sotto il trattore.
Giovedì 2 maggio sono morti tre operai edili, due in provincia di Napoli e uno nel Siracusano, tutti vittime di cadute.
Vincenzo Coppola, 60 anni, ha perso la vita a Casalnuovo (Napoli) cadendo da una scala nel cantiere per la costruzione di una scuola per l’infanzia.
Il lavoratore è stato trasportato al pronto soccorso della clinica Villa dei Fiori di Acerra, dove i suoi compagni di lavoro si sono subito dileguati.
Segno evidente che in quel cantiere molte cose non funzionavano. Lo denuncia alla Tgr Campania il fratello della vittima, geometra impiegato anche lui nel settore, secondo il quale il cantiere non è a norma, a partire dall’assenza di impalcature.
Raffaele Manzo di anni ne aveva 57, ed è morto a Lettere (Napoli), precipitando dal terzo piano durante l’installazione dei ponteggi intorno a una palazzina. Lascia la moglie e tre figli.
Non conosciamo ancora il nome dell’operaio catanese di 59 anni vittima a Floridia (Siracusa), del cedimento del tetto di una villetta sul quale stava posizionando dei pannelli.
Martedì 30 aprile è morto alla Imes di Gioia del Colle (Bari), il 59enne Corrado Buttiglione, travolto dal carico di metallo che stava movimentando con un muletto nel cortile dell’azienda, che produce infrastrutture in acciaio.
Lunedì 29 aprile è morta al San Camillo di Roma Adalgisa Fabrizi, 78 anni, che sabato 27 aprile era stata incornata alla trachea da una bufala nel suo allevamento di Amaseno (Frosinone).
Nota finale: facendo la media delle età delle 7 vittime di cui abbiamo parlato, si ottiene 66,2 anni.